In Italia ci sono 550mila aziende guidate da stranieri. In crescita nonostante la crisi. Abbiamo raccolto storie italiane ed europee per sfatare le bufale di Salvini&Co.

Si tende a pensare che il mercato del lavoro sia un gioco a somma zero, in cui ci si contende un numero finito di impieghi possibili», scrive l’economista Kevin Shih, del Rensselaer Polytechnic Institute, università dello Stato di New York: «la realtà però è molto più complessa. Un migrante può concorrere per il posto di lavoro degli autoctoni, è vero: ma un singolo migrante con una buona idea, può creare centinaia di nuovi lavori che altrimenti non esiterebbero», continua il ricercatore che poi cita il noto caso dell’imprenditore sudafricano Elon Musk.

Eppure, non certo ignari di come funziona il mercato del lavoro, alcuni politici – da Salvini a Grillo, a Farage, Le Pen e Orban in Europa, fino a Trump negli Stati Uniti – si rincorrono a fare propaganda sui muri contro gli stranieri. Ma è l’Eurostat a dirci che in Italia, ad esempio, ci sono più di 550mila le aziende guidate da migranti, registrate dalla fine del 2015. Corrispondono al 9,1 per cento del totale e producono 96 miliardi di euro di valore aggiunto: il 6,7 per cento della ricchezza complessiva del Paese. In piena crisi economica, tra il 2011 e il 2015, sono peraltro aumentate di oltre il 21% (con 97mila attività in più), quando, nello stesso periodo, il numero delle imprese registrate da imprenditori italiani ha rilevato un calo complessivo dello 0,9 per cento. Serve però raccontarle, evidentemente. Ed ecco quattro storie di migranti imprenditori che non ci rubano il lavoro ma lo creano.

La prima storia inizia a Rosarno, nelle afose campagne calabresi. Dove i migranti vengono assunti dai caporali per lavorare nei campi per meno di 2 euro all’ora. Dopo avere partecipato alle rivolte del 2010, scoppiate dopo l’uccisione di un migrante a colpi di pistola, Suleiman Diara era stato costretto ad abbandonare la sua vita da raccoglitore di arance. Fuggito a Roma e poi a Casale di Martignano, a trenta chilometri dalla Capitale, aveva deciso di produrre yogurt con il metodo naturale imparato in Mali. Con 30 euro ricevuti da un volontario come capitale iniziale, Suleiman e l’amico senegalese Cheikh Diop hanno comprato 15 litri di latte e tentato la fortuna. Sei anni dopo, i due amici, insieme ad altri cinque migranti, producono yogurt biologico, che consegnano in bicicletta in barattoli di vetro, che poi vengono recuperati e riciclati. Nel 2017 hanno espanso l’attività con la coltivazione di ortaggi, la cura di un parco pubblico e assunto il loro primo lavoratore, un ragazzo italiano con la sindrome di asperger: «Per chi ha la sindrome di asperger a volte è difficile integrarsi nella società, è complicato riuscire a esprimersi e a comunicare. Esattamente come succede a noi migranti», dice Diara.

«Abbiamo chiamato la nostra cooperativa sociale Barikamà, che nella lingua del Mali significa “resistenza”: perché abbiamo dovuto attraversare così tante difficoltà per aprire questa azienda, ma non ci siamo mai arresi», racconta Diara, 32 anni, arrivato in Italia con un barcone dalla Libia, nel 2008. «Adesso i guadagni vanno alla nostra cooperativa e all’agriturismo che ci ospita. Non siamo più schiavi braccianti al servizio dei caporali nei campi per 2 euro l’ora». E arrivano anche i riconoscimenti. «Un’attività agricola, che è stata definita dagli esperti delle Nazioni Unite un esempio di agri-coltura per lo sviluppo sostenibile, che se replicato può aiutare a nutrire la crescente popola-zione mondiale», scrive la Thomson Reuters Foundation.

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