Dalla tanto criticata Grecia di Alexis Tsipras, spesso rimproverato di non essere abbastanza di sinistra, arriva una notizia che non può certo passare in secondo piano. Da tempo il governo greco insiste sulla contrattazione collettiva come punto dirimente per le proprie politiche e nell’ultimo memorandum, ne viene finalmente previsto il ripristino a partire dal 2018. Mentre Matteo Renzi definisce il Jobs act «la cosa più di sinistra», insomma, il premier greco incassa almeno un risultato di sinistra: «I diritti dei lavoratori e la contrattazione collettiva, aveva scritto Tsipras in una lettera ai suoi omologhi europei, nel mio Paese sono limitati».
Dopo innumerevoli ricatti ed estenuanti trattative, il 2 maggio il governo di Atene ha raggiunto il nuovo accordo preliminare con le istituzioni europee. Un pre-accordo, per la verità, che dovrà essere ratificato dall’Eurogruppo il 22 maggio. Prima, però, Alexis Tsipras dovrà convincere il suo Parlamento che il testo è il male minore, rispetto al «liberismo senza limiti» del centrodestra. Gli obiettivi, difficili ma non impossibili nel Paese che si è ormai fatto suo malgrado simbolo dall’austerità, è quello della riduzione del debito greco: uscire dal commissariamento e accedere al quantitative easing della Bce, ripristino della contrattazione collettiva e costruzione di uno stato sociale che dia a tutti la possibilità di accedere alle prestazioni fondamentali. In cambio, però, un nuovo un taglio alle pensioni di 900mila cittadini che percepiscono, al momento, più di 700 euro al mese (in media, un taglio del 9%, con picchi del 18%), l’abbassamento della no tax area da 8.636 euro a 5.681 euro.
Ma torniamo al Lavoro, quello che passa – erroneamente – in secondo piano nel racconto dei vari Memorandum. «Quasi 200mila persone prendevano uno stipendio sotto ai 100 euro al mese, il mercato del lavoro era messo molto male, decine di migliaia di lavoratori rimanevano ancorati ad aziende chiuse ma non andate in fallimento in maniera da continuare a ricevere il sussidio di disoccupazione. C’erano persone che dopo 20 mesi senza stipendio e senza reddito non potevano avevano diritto al sussidio, il lavoro nero era arrivato a quota 20%, la disoccupazione ufficiale al 30% e grazie alla deregolamentazione completa i contratti a livello aziendale superavano quelli di categoria, per non parlare dell’abolizione dei contratti nazionali. Ogni datore di lavoro poteva denunciare gli accordi della sua categoria e disconoscere i relativi contratti. Per la prima volta in Grecia il ministro del Lavoro poteva decidere il livello di salario minimo senza consultazione o trattative tra le parti». Così Andreas Nefeloudis, segretario generale del ministero del Lavoro greco, ci raccontava come stava la Grecia prima del loro governo (l’intervista è dell’8 febbraio scorso, e potete rileggerla qui). E in quell’intervista ci metteva in guardia: «I governi europei – specialmente quelli con alti tassi di disoccupazione o di orientamento progressista – anche se sono costretti a sopportarli, devono stare molto attenti nell’applicare misure di deregolamentazione del lavoro, anzi devono spingere per l’abolizione dei voucher nel mercato di lavoro. In Grecia, intanto, su iniziativa delle nostra ministra del Lavoro, abbiamo abolito i voucher nei programmi del ministero e per qualsiasi cosa siamo in diretto contatto con i disoccupati. Il voucher non può sostituire né il salario minimo, né il lavoro occasionale. L’unica risposta alla disoccupazione è un lavoro vero, dignitoso, protetto e garantito per far prosperare le famiglie, la società e i nostri Paesi. Il governo di Alexis Tsipras in Grecia lavora in questa direzione».
Mentre i – rimasti – 27 discutono ancora di Brexit – e di tutti i possibili -exit – e si fa un gran parlare di “fuori o dentro l’Ue”, la Grecia batte la strada europeista.