La partecipazione al voto per le Europee è scesa ai suoi minimi storici. Non basta aver mandato nel Parlamento europeo più eletti possibile, adesso occorre riprendere la pratica ormai dismessa dell’analisi per studiare i processi profondi che si agitano nel Paese

Gli appelli dell’ultimo minuto ad andare a votare per le elezioni europee non hanno avuto successo. L’area dell’astensione cresce ancora inesorabilmente e la partecipazione alle operazioni di voto scende ai suoi minimi storici: meno della metà del corpo elettorale, il 49.50% ha esercitato questo diritto.
Bisogna tuttavia aggiungere che proprio (anche) in virtù della forte astensione oggi possiamo festeggiare.
Perché chi vince ha sempre ragione, pare. È quindi un bene che il Pd abbia avuto un buon risultato (non scontato), e ancor di più la lista Avs (ancor meno scontato).
I numeri però non dicono tutto, a volerli leggere senza troppa partigianeria interessata.
L’aumento dell’astensione produce infatti un effetto moltiplicatore sul peso del voto espresso: meno voti si esprimono, più aumenta il peso del voto espresso.
Con gli stessi voti si possono raddoppiare le percentuali, come accade con Avs (che raccoglie 1.577.000 voti e raggiunge la percentuale di 6,76% laddove alle precedenti elezioni politiche, con simile raccolto, circa 1.100.00 voti, aveva solo il 3.64%, e ancora prima con Leu – considerata fallimentare dai suoi stessi promotori – e Italia Europa Insieme nel 2018 con 1.300.000 circa aveva complessivamente il 3.80% circa e ancora alle precedenti europee sempre con circa 1.100.000 voti raggiunse il 4.1% circa, ovvero 2.8% i Verdi e 1.8% La Sinistra).
E addirittura si può persino aumentare le proprie percentuali raccogliendo meno voti (il Pd alle precedenti europee con 6.050.351 raggiunse il 22,69% e oggi con 5.621.178 arriva al 24.40%, cioè con più di mezzo milione di voti in meno, accresce la sua percentuale).
Alla fine quel che conta è aver mandato nel Parlamento europeo più eletti possibile. Ma può bastare? È questo l’obiettivo? È questo quello che cerchiamo, che può soddisfare soggetti che hanno l’ambizione di cambiare il Paese, di incidere nella sua trasformazione e crescita democratica?
Se alle prossime elezioni voteranno ancor meno cittadini, con gli stessi voti (o paradossalmente anche con meno), quelli degli irriducibili, il Pd potrebbe arrivare al 30% e Avs al 10%.
Ma da un punto di vista politico e sociale, persino culturale, può la sinistra essere questa? È questo che racconta il Paese?
Possiamo tutto ciò definirlo, come azzarda qualcuno, “stiamo tornando”, o “abbiamo riportato il partito tra la gente”?
Perché il Paese che elegge, per fortuna, la Salis con 170mila voti, è anche quello che assegna 500mila voti a Vannacci. Non è di questo, anche, che dovremmo preoccuparci, e discutere, e analizzare?
Voglio dire che il dato numerico non corrisponde, non corrisponde appieno, al dato sociale.
I conti (non i seggi, i posti, i “rappresentanti”) non tornano.
È un bene che l’emorragia sia stata fermata, che si consolida il rapporto con gli elettori di riferimento: ma non ci si può fermare lì. Risuonano ancora gli echi della vittoria sarda, che però fu smentita subito dopo dai dati delle altre regionali.
Allora, se vogliamo dare un senso e un valore ai risultati di domenica, non abbandoniamoci a facili, quanto inutili trionfalismi, e riprendiamo la pratica ormai dismessa dell’analisi che sia capace di studiare i processi profondi che si agitano nel Paese.
Perché i numeri, a volerli interpretare, non dicono tutto se sottoposti a letture superficiali.

Lionello Fittante, tra i promotori degli “Autoconvocati di Leu”
ex componente del Comitato Nazionale del movimento politico èViva

Nella foto: Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, frame di un video