Solo in Italia è possibile lavorare in un negozio di calze come stagista. Solo in Italia è possibile lavorare come collaboratore in un call center, otto ore per cinque giorni la settimana, senza tutela per malattia e maternità. Solo in Italia è possibile.

Solo in Italia è possibile lavorare in un negozio di calze come stagista. Solo in Italia è possibile lavorare come collaboratore in un call center, otto ore per cinque giorni la settimana, senza tutela per malattia e maternità. Solo in Italia è possibile lavorare da precario in un ente pubblico di ricerca, in funzioni di delicato interesse pubblico. Solo in Italia esiste il contratto parasubordinato. Chi lo firma non è esattamente un dipendente, come indica il nome. Infatti non ne condivide i diritti e affronta molti più rischi, come fosse un autonomo. Il parasubordinato ha consentito alle imprese e alle cooperative sociali di assumere un dipendente, pagato meno, con bassi contributi previdenziali e non protetto.

In Italia ci sono oltre 1,4 milioni di parasubordinati, tra questi 546mila collaboratori a progetto con uno stipendio medio di 10mila euro lordi all’anno. La flessibilità del lavoro è una realtà – 7 su 10 i contratti a tempo determinato sul totale dei nuovi rapporti di lavoro nel 2013 -, il precariato permanente è la sua degenerazione. Ma non è l’unica via possibile, c’è ancora un’opportunità.

Il parasubordinato deve essere abolito: i dipendenti mascherati da co.co.co diventino dipendenti a termine, apprendisti o interinali, e i veri collaboratori a progetto diventino professionisti senza albo, con partita Iva e contributi ribassati nei primi anni. Per questi ultimi ci sono 800 milioni di euro in finanziaria, una discontinuità forte col passato, un riconoscimento del lavoro autonomo di seconda generazione. Si può ragionare attorno a un nuovo tipo di contratto, che assorba tutte le forme di lavoro subordinato e eterodiretto.

Un patto professionalizzante tra imprese e giovani: minori costi di licenziamento per i primi tre anni, con regole certe per la stabilizzazione, e in cambio la possibilità di rimanere in un percorso formativo. Mentre si lavora, si può continuare a studiare per il diploma o la laurea, imparare l’inglese o l’uso di un programma informatico: 150 ore indicate dall’impresa, 150 ore scelte dal lavoratore. Si dovrà ridisegnare la formazione professionale, lo stage e l’alternanza, e ridefinire il rapporto tra scuola-università e il sistema delle imprese. A copertura, ci sono i fondi regionali per la formazione e quelli europei. È un investimento dell’impresa, del lavoratore e della collettività per garantire un’assicurazione dentro la flessibilità. Il contratto professionalizzante è un’occasione per i giovani che chiedono lavoro, per avere un reddito ma anche per potersi realizzare, conquistare opportunità di cultura e professionalità. E libertà.