Siamo a più di due mesi dalla presentazione de La buona scuola. In questo periodo si sono susseguite iniziative e dibattiti un po’ in tutto il Paese, eppure la sensazione è che la scuola sia rimasta a guardare. Lo dico riflettendo sui questionari ritornati che ad oggi si aggirano sui 60.000: se anche fossero tutti di insegnanti (e non lo sono) sarebbero comunque pochi rispetto al totale che supera ampiamente i 700.000. Appena l’anno scorso gli studenti della Rete della Conoscenza ne hanno raccolti e analizzati quasi 100.000. E questo con le sole loro forze, mentre quelle messe in campo dal governo per spingere alla partecipazione i cittadini sono state notevoli, mobilitando televisioni, radio e praticamente tutte le amministrazioni scolastiche periferiche.
Ciononostante, la stragrande maggioranza delle iniziative organizzate sul documento del governo non sono promosse dalle scuole ma da enti e associazioni, cioè dai soggetti di quella “società di mezzo”, come l’ha definita De Rita, che si ritiene in diversa misura responsabile dell’immobilità del Paese. Come si spiega questa freddezza degli insegnanti rispetto ad un documento che bene o male per la prima volta dopo anni si offre alla lettura e alla critica, con un piano di interventi molto articolato che individua con precisione alcuni problemi storici della scuola e ha l’ambizione di risolverli una volta per tutte? Il governo vuole aggredire il problema del precariato e gli insegnanti sono consapevoli che la sua soluzione sarebbe un passaggio epocale per la scuola. Le proposte del governo sulla formazione iniziale e l’immissione in ruolo per concorso non saranno perfette, ma si rifanno alla Carta costituzionale e si propongono di evitare il rapido riformarsi di quelle situazioni particolari che sono state la base su cui si è formata la giungla del precariato. Pure questo è ampiamente condiviso, come lo è il rilancio della formazione in servizio col riconoscimento che l’entrata a scuola per un insegnante non è la fine della sua formazione, ma l’inizio di uno sviluppo professionale che proprio sulla scuola deve poter contare.
Allora da dove viene questo disinteresse che emerge in modo ancora più paradossale in quanto si accompagna in questo periodo alla richiesta pressante delle scuole stesse di una formazione sulle Nuove indicazioni della scuola dell’infanzia e del primo ciclo? Io credo che la spiegazione sia nell’errore che si commette quando si pensa di poter intervenire nella scuola utilizzando le prassi e teorie che la politica ha consolidato altrove. C’è troppa attenzione nel documento a disseminare segnali di cambiamento profondo senza curare che essi disegnino un quadro di riferimento coerente. È evidente che il documento del governo vuol parlare all’intero Paese, che oggi apprezza il cambiamento purché sia, ma gli insegnanti vogliono sapere verso cosa. Chiedono che si parta dalla fine, dall’idea di scuola che si vuole realizzare, e quella del documento resta ambigua. C’è troppa attenzione alla finanziabilità delle proposte, alle richieste di un mercato globale che spinge ad investire sulle specificità italiane. Ma quando si ribatte alla famosa affermazione che «con la cultura non si mangia» sostenendo che invece ci si può mangiare, si resta comunque sullo stesso piano.
Un piano che non scalda il cuore. Alla scuola bisogna dire che «con la cultura si cresce» perché di questo sono convinti gli insegnanti migliori. Si rilancia l’organico funzionale ma poi si parla nello specifico di sole supplenze e copertura di “buchi”: se non c’è l’idea di una scuola che progetta e sperimenta non si capisce a cosa sarà funzionale quell’organico. Si propone un modello in cui il valore del docente diventa una prerogativa esclusivamente individuale, come se nella scuola vigesse un’organizzazione tayloristica del lavoro, invece gli insegnanti sanno che per essere valutati deve essere valutata contemporaneamente anche la scuola. Agli insegnanti si deve dire che la loro valutazione è fondamentale perché significa valutazione dell’insegnamento efficace, perché al centro della scuola devono rimanere gli studenti e il loro apprendimento.
La buona scuola è un documento con molti slogan condivisibili ma la scuola buona non ama i documenti fatti di slogan. Ma la delusione nasce soprattutto dal fatto che il governo chiede alla scuola fiducia nella politica, ma la scuola aspettava una politica che avesse fiducia in lei, nella tanta buona scuola che c’è già e da cui si dovrebbe partire. Per anni abbiamo subito un’emorragia di risorse lenta e inarrestabile grazie alla strategia della “disattenzione attiva”. Oggi si rischia di cadere in un “attivismo disattento” alla buona scuola che c’è già, che chiede solo di diventare il punto di partenza per il rinnovamento dell’intero sistema. Abbiamo perso la memoria, ma le migliori riforme in Italia sono sempre nate ascoltando le scuole dove si sperimentavano le migliori pratiche. Nella tradizione della montagna, quando si deve tracciare un sentiero non si vanno a cercare ingegneri, ma si guarda da dove sono passati coloro che hanno raggiunto la cima. Noi non dobbiamo fare altro che seguire le tracce della buona scuola.