Dolce e barbaro. Una definizione che Gilberto Gil ha scelto tanto tempo fa per sé e i suoi compagni di sempre: Caetano Veloso, Maria Bethania, Gal Costa. Cinquant’anni dopo, quella definizione gli calza ancora a pennello. Classe 1942, Gil è un pilastro della cultura brasiliana per almeno un paio di motivi: la musica e l’impegno politico.
È passato mezzo secolo dalla sua prima apparizione pubblica e in questo lasso di tempo ha fondato il movimento “tropicalista”, ha collezionato 50 album che hanno venduto più di 5 milioni di copie e ha incassato numerosi premi e riconoscimenti. La vita di Gil è la parabola di una rivincita. Quando dà vita al tropicalismo, insieme all’amico Caetano Veloso, la dittatura militare di Artur da Costa e Silva li esilia entrambi a Londra. È il 1968. Trentacinque anni dopo Ignacio Lula Da Silva lo chiama a servire il suo Paese come ministro della Cultura. E lo fa per 5 anni, ma poi torna alla sua musica.
Essere Gilberto Gil significa anche poter salire su un palco, davanti a più di mille spettatori, accompagnato solo dalla sua voce e dalla sua chitarra. Niente frenesia da samba, ma un’ora e mezza di intima e soave empatia. Di passaggio all’Auditorium della Conciliazione di Roma – e in Italia fino al 6 novembre – Gil non si risparmia: suona, canta, gioca e incanta, come se l’auditorium fosse il salotto di casa sua.
Con il suo Solo tour 2014, infatti, porta in scena «l’aura di leggenda» della bossa nova raccolta nel suo ultimo album Gilbertos Sambas, un omaggio al Maestro João Gilberto. E, in generale, alla storia musicale del suo Brasile. Emblema ne è l’esecuzione di Desafinado, capolavoro scritto da Jobim e Mendonca, dedicato ai cantanti stonati che si esibivano nei locali della Rio bene e portato al successo proprio da João Gilberto. Un viaggio intimo che Gil decide di condividere con il pubblico. Sorridente e generoso ma un po’ restio alle interviste, si concede al dialogo con Left.