Alla manifestazione della Cgil il 25 ottobre a Roma il pezzo del corteo dell’Emilia era il più numeroso . A migliaia dietro gli striscioni dei metalmeccanici, della funzione pubblica, delle Camere del Lavoro, e tanti giovani e tanti pensionati. E tante belle facce, di quell’Italia che è scomparsa dalle televisioni e dalle sedi dei partiti, ma fa bene al cuore rincontrare nelle piazze, perché è quella che fa andare avanti il Paese, tutti i giorni.
Molti di quelli che vedevi in piazza erano gli stessi che facevano le feste dell’Unità e le campagne elettorali della sinistra. I primi voti che il Partito democratico non ha più ritrovato nelle urne – voti che invece erano arrivati alle Europee – erano probabilmente in quella piazza. Voti di cittadini che non avevano voglia di abbandonare il Pd. Semplicemente hanno preso atto che il Pd, o per lo meno chi lo dirige, ha abbandonato loro. Declassando addirittura, con termini berlusconiani, la loro voglia di partecipare e di lottare per le proprie idee e i propri interessi a una questione di paura del nuovo e di “invidia”. Mettendoli, addirittura, sullo stesso piano della destra, nel vasto fronte che ormai accomuna quanti che non credono alle “magnifiche sorti e progressive” annunciate ogni giorno dal premier.
Parliamo di donne e uomini che rappresentano l’unica speranza che la rabbia sociale – per il lavoro che manca, per lo stipendio che non basta più, per il Paese che va a pezzi – non abbia come unico interlocutore il populismo reazionario di Matteo Salvini. Il loro non voto pone da subito al Pd un problema serio, direi quasi un problema esistenziale. Riaprire seriamente il confronto coi sindacati, prendere sul serio le ragioni di chi manifesta e di chi sciopera, prendere atto che non è riducendo i diritti che aumenta il lavoro. Sono queste le condizioni perché il Pd possa essere ancora pensato e vissuto da quei lavoratori come il loro partito. D’altra parte è proprio la capacità di essere interlocutore credibile del conflitto sociale a distinguere un governo di sinistra da un governo di destra.
Su questa questione di fondo Renzi e i suoi hanno, più o meno elegantemente, glissato. «Ma quanti voti hanno preso quelli che sostenevano la Cgil?», detto di un sindacato che da tanto tempo in Italia ha deciso di non contarsi nelle urne, rompendo le cinghie di trasmissione con i partiti, ricorda un po’ la vecchia domanda di Stalin su quante divisioni ha il Papa, e rivela un’idea delle democrazia maggioritaria che fa un po’ orrore. Ma ancora più irresponsabile è la gioia trionfalistica per la vittoria, «2 a 0 e palla al centro», e quella di mettere tutto l’astensionismo in un calderone: «L’astensionismo riguarda tutti». In una Regione come l’Emilia a dire il vero l’astensionismo riguarda soprattutto chi governa, nella Regione e a Roma. E infatti proprio chi governa cede al non voto, in numeri assoluti, più voti di tutti.
C’è poi chi depotenzia il significato politico di quanto è successo attribuendo tutto alla perdita di credibilità delle Regioni, e agli scandali che hanno colpito gran parte del personale politico regionale, quello del Pd compreso. C’è molta verità in questa affermazione. Ma questo certamente non basta per assolvere chi, nel Pd, ha avuto o ha un ruolo dirigente. E che non ha avviato, né sta avviando, una seria riflessione sul costo enorme delle Regioni, sulla necessità di ridurne il numero, e di moralizzare i comportamenti di un ceto politico che dissipa risorse pubbliche solo per perpetuare se stesso. A volte oltre ogni limite di decenza. Anzi a questo personale politico, sempre più delegittimato, dall’astensionismo e dalla magistratura, viene affidato il compito di formare (senza il voto dei cittadini) il nuovo Senato.
Certo che ha pesato sul non voto la questione morale. Rispetto alla quale non basta riaffermare la fiducia nella magistratura, perché i cittadini si accorgeranno che si sta facendo qualcosa su questo terreno quando i partiti cominceranno ad arrivare prima. E denunceranno gli abusi ed espelleranno i corrotti. È incredibile che un personaggio come Marco Di Stefano, indipendentemente dalla sua responsabilità penale da accertare, abbia potuto fare quanto sta emergendo senza che nessuno nel Pd se ne sia accorto. Del resto Di Stefano, per il suo passato politico, è un esempio significativo di cosa può significare lo sfondamento a destra del Pd, che tipo di personale politico si imbarca.
Ai reati è giusto ci pensi la magistratura, ma alle pratiche clientelari in politica, all’opacità nella pratica amministrativa, devono pensarci i partiti. Soprattutto quelli di sinistra devono esserne capaci. Anche rinunciando a quel qualche migliaio di voti. Voti che, portati da personaggi di questo tipo, hanno determinato, nell’ultima tornata congressuale, il cambiamento di verso del Pd.