Non tutti si sentono cocci di un vaso rotto. Io stesso non lo sono. Non basta sommare diverse anime, dobbiamo costruire. Parla Claudio Riccio, portavoce degli “indignati” italiani.

In politica le “nuove leve” stanno invecchiando dietro le quinte. O almeno succede in Italia. La sinistra guarda all’Europa con stupore e si prepara a una nuova stagione di chiamate all’unità.

Per il momento se ne contano già tre: il soggetto unitario già lanciato da L’Altra Europa con Tsipras, la Sinistra possibile del “dissidente” democratico Pippo Civati (il 13 dicembre a Bologna) e per finire Human factor annunciata d’emblée dal segretario di Sel, Nichi Vendola (per gennaio).

Intanto le piazze si riempiono: dopo gli scioperi del 25 ottobre (Cgil) e 14 novembre (lo sciopero sociale), si attende il 12 dicembre a Roma. E il vuoto di rappresentanza cresce. Più di un Paese europeo ha imboccato la via d’uscita a sinistra: Grecia, Slovenia, anche la Spagna affida a Podemos e al 36enne Pablo Iglesias le sue speranze di cambiamento. La sinistra antiausterità incassa consensi e riconoscimenti. Da ultimo quello, inaspettato, della rivista britannica Financial Times – che non è certo la Pravda: «I partiti dell’estrema sinistra sono i soli che sostengono politiche sensate come la ristrutturazione del debito e la necessità di investimenti pubblici», ha scritto l’editorialista Wolfgang Münchau. «La crescita di Podemos mostra che c’è la richiesta di una politica alternativa». Ma, allora, perché in Italia la sinistra stenta a spiccare il volo?

Lo abbiamo chiesto a Claudio Riccio, portavoce di Act!, «il movimento di idee e azione che si pone l’obiettivo di costruire una nuova sinistra in grado di cambiare davvero il nostro Paese, l’Europa e le vite di milioni di giovani precari e disoccupati», spiega.

Sa di somigliare tanto a Pablo Iglesias? Però il suo movimento, Act! – in molte cose simile a Podemos – non ha il 27,7 per cento dei consensi…

Sai che questi discorsi mi intimidiscono. Non è la singola persona che fa la differenza, né semplicemente una rete di attivisti del movimento a farlo. È una questione di contesto politico, di capacità di attivare le energie, il tempo dei singoli salvatori della patria o delle avanguardie è finito, serve invece un processo basso e popolare. L’Italia ha avuto un contesto politico di movimento molto differente da quello spagnolo.

Cioè?

In Spagna il movimento è stato largo e popolare, attraverso l’occupazione delle piazze e le assemblee permanenti, ha portato a una politicizzazione della società. Negli ultimi anni in Italia invece c’è stata una spoliticizzazione della società. Eppure il nostro Paese è stato a lungo, fino al 2011, il più conflittuale d’Europa, qui c’era il più alto grado di conflitto sociale non solo in termini di opposizione al governo Berlusconi, ma anche in termini di capacità, in particolare, delle giovani generazioni di mobilitare migliaia di persone in tutto il Paese.

E, poi, cos’è successo?

Che mentre in Spagna l’indignazione è stata rivolta verso i banqueros, le banche e la finanza speculativa – e cioè le vere cause della crisi – in Italia questa indignazione si è rivolta verso “la casta”. Un nemico parziale: la battaglia contro la casta non porta certo alla risoluzione del problema.

Però ha portato il Movimento 5 stelle al 26 per cento e passa.

Molti sostengono che il Movimento 5 stelle abbia desertificato la sinistra. Io non credo sia così: il M5s è cresciuto nel deserto della sinistra, raccogliendo elementi, istanze, parole d’ordine e anche tanti attivisti che vengono dai movimenti sociali e di lotta. Poi, però, se si raccoglie un forte consenso intorno a una domanda di cambiamento radicale e la si cuce solo per raccogliere altro consenso, si finisce per scadere nel razzismo, nell’intolleranza. Si finisce ad assecondare ogni umore della gente. Si tradiscono una missione e una potenzialità, per ripiegare sul politicismo e sul tatticismo.

Tolto l’alibi del M5s, come si spiegano allora le débâcle finora collezionate a sinistra?

Non so se il M5s sia morto o meno, so però che ha rivelato ancora una volta l’esigenza di costruire una sinistra nuova, all’altezza delle sue sfide. Gli ostacoli sono numerosi, tra questi il fatto che il campo della sinistra è consumato da anni se non decenni di errori e rancori. Errori: perché sono state condotte scelte sbagliate sia da un punto di vista tattico che politico. Rancori: i gruppi dirigenti della sinistra, o coloro che si ritengono tali, hanno un tasso di conflittualità interna che credo costituisca una parte del problema. E soprattutto diventa un “tappo” che impedisce la partecipazione.

l’intervista integrale su left in edicola da sabato 6 dicembre 2014