«Siete troppo poveri per prendervi cura di noi». La frase, forse infelice, ha fatto infuriare i politici greci. Ma Nander Halbuni, rappresentante dei 200 siriani che il 19 novembre hanno iniziato la loro protesta in piazza Sintagma, ad Atene, non sa di aver toccato un brutto tasto. Loro – lui e gli altri 199 – chiedono soltanto di poter lasciare il Paese. «Vogliamo andare dove possiamo ricostruire una vita dignitosa», ha spiegato durante la conferenza stampa dello scorso 28 novembre. Possibilmente in Germania, in Svezia, in Norvegia e magari anche in Francia o Svizzera. Ma Italia, Grecia o Bulgaria non sono quello che cercano. In fuga dalla guerra, è vero. Ma per vivere, non per «morire di stenti».
Il governo bulgaro, che ha accolto 4.800 siriani solo nei primi dieci mesi del 2014, avverte che le sue strutture non sono più in grado di garantire vitto e alloggio. «Siamo al limite». Se ne dovessero arrivare altri, non si sa cosa farne. Quelli che già sono nel territorio denunciano condizioni spaventose, sistemati come sono in campi profughi dove il fango arriva alle caviglie. Il centro di accoglienza di Harmanli è finito nella lista nera delle ong: incuria, sporcizia, violenza. L’Unhcr è arrivato al punto di chiedere ai Paesi vicini di sospendere i respingimenti verso la Bulgaria perché sarebbe stato un atto disumano. Chi ha avuto lo status di rifugiato è già scappato verso il Nord Europa, sperando di trovare il modo di restarci. Chi si è visto consegnare il tesserino di protezione umanitaria, invece, resta qui, impossibilitato a muoversi anche solo per pochi giorni. Hanno pagato non meno di 10mila euro per arrivare alle frontiere dell’Unione, ora che ci sono dentro non accettano di vivere alla periferia dell’impero. Sono medici, ingegneri, docenti universitari. Vogliono il cuore dell’Europa.
Mohanad Jammo in Siria faceva il medico, direttore del reparto di anestesia all’Ibn roshd hospital di Aleppo. In Italia è arrivato nel 2013. Su un barcone, assieme ad altri 400 siriani. La barca, inseguita dalle motovedette libiche, si è rovesciata: 286 persone sono morte, appena 26 i corpi recuperati. Era l’11 ottobre, una settimana dopo la “strage di Lampedusa”. Sbarcato sull’isola, ha chiesto di andare via «Devo raggiungere la Germania», ha detto semplicemente. Invece gli sono toccate le procedure usuali. Ma non l’hanno registrato. Un tacito accordo ha consentito che venisse accolto come “persona temporaneamente presente sul territorio”. Migliaia di persone hanno avuto la stessa possibilità.
Dei 35.800 siriani passati per la stazione Centrale di Milano, dove il Comune aveva allestito un centro di accoglienza, solo 62 hanno presentato domanda di asilo in Italia. Il regolamento di Dublino obbliga a chiedere protezione nel primo Paese Ue in cui si mette piede, ma l’Italia non è vista come una mèta definitiva. «Il Comune ha aperto un corridoio umanitario in attesa di avere una risposta dallo Stato o dall’Unione europea», spiega Manuela Brienza, consulente dell’amministrazione meneghina per “l’emergenza profughi”. «Abbiamo dato e diamo informazioni sulle leggi in materia di asilo, ma non siamo la polizia. Non siamo noi a fare controlli, non siamo noi a verificare che siano già stati identificati». Chi arriva riceve assistenza, si ferma 5, 6 giorni, e poi tenta di attraversare la frontiera. «Chiedono di raggiungere la Germania, la Scandinavia. Vogliono andare via il prima possibile», aggiunge Brienza. «Hanno un progetto di migrazione, un percorso da compiere. Hanno contatti, relazioni, sanno cosa devono fare. È una capacità che deriva da ricchezza culturale ma anche economica. Se dovessi fare un paragone, direi che la diaspora siriana ricorda quella ebraica: è organizzata, non improvvisata». È una classe media, anche medio alta, quella che arriva alle porte di Milano. «I primi mesi, tra l’ottobre 2013 e l’aprile 2014, c’è stata una forte percentuale – tra il 70 e l’80 per cento – di professionisti, molto benestanti. Alloggiavano in alberghi, non avevano problemi per il cibo o per il vestiario. Poi sono arrivati gli artigiani, i lavoratori autonomi. Nell’estate di quest’anno c’è stato un flusso di palestinesi e curdi. Ma quello verso l’Italia è un viaggio rischioso e costoso. Non tutti se lo possono permettere».
Bisogna avere denaro, soprattutto se l’Italia non è la meta finale. Non ci sono solo i soldi da dare ai “passatori” in Egitto o Libia, i porti da cui partono i barconi. Ci sono i “passatori” pure in Lombardia o in Veneto, necessari per essere accompagnati alla frontiera. Non senza truffe crudeli, racconta Brienza: «Un ragazzo si è fidato, ha dato centinaia di euro. L’hanno portato in Trentino, la gente intorno parlava tedesco. Gli hanno detto: “Ecco qua la Germania” e l’hanno lasciato là». È dovuto tornare indietro, ricominciare di nuovo. Ma il denaro non serve solo a pagare trafficanti o ungere ruote. «Un povero difficilmente troverà asilo da noi», ammette un’attivista di Proasyl, associazione tedesca che si occupa di rifugiati. «La maggior parte di quanti ottengono protezione la hanno in virtù della presenza di familiari nel territorio tedesco.
Delle 10mila persone che la Germania si è impegnata a ricollocare, almeno 7mila sono all’interno del Länderprogramme, che prevede che il mantenimento e l’assistenza siano pagate dalla famiglia. In sostanza, si tratta di avere un buon reddito- è prevista una soglia minima – e una casa adeguata a ospitare altre persone. Tutte cose tipiche di un ceto medio». Inizialmente anche l’assistenza sanitaria doveva essere pagata dai familiari, poi, dopo le proteste, la norma è stata resa più elastica. Ma i controlli sul rispetto del regolamento di Dublino sono ferrei: gli immigrati irregolari vanno riaccompagnati alla frontiera, che provengano dall’Italia o dalla Bulgaria. «Basta uno scontrino, un biglietto di treno che dimostri che la Germania non è il primo Paese di ingresso. Non importa che la domanda di asilo non sia stata presentata altrove, l’importante è rallentare il continuo flusso di profughi». Se si viene rimandati indietro, non c’è via di scampo alla registrazione. «Io sono venuto in Germania perché qui posso lavorare», dice Mohanad Jammo. Dopo tre mesi i Lander permettono di avere un impiego, anche se trovarne uno non è facile. Ma per chi parla inglese o tedesco il problema è meno sentito. «Classe media?», chiede Jammo. «Guarda, io ero persino in “prima classe”. Ora in Germania questa differenza sociale non la sento. Ho ottenuto il permesso di esercitare la mia professione un mese fa. Questo volevo». Anche se lo voleva insieme a tutta la sua famiglia. Invece due dei suoi figli sono annegati nel naufragio dell’11 ottobre. Uno aveva 6 anni, l’altro 9 mesi.
In Svizzera, dove comunque si applica il Regolamento di Dublino, sono meno fiscali sul Paese di provenienza. «Guardiamo la banca dati di Eurodac (il database europeo delle impronte digitali, ndr) e poi decidiamo», spiega Céline Kohlprath, portavoce dell’Ufficio federale delle migrazioni. «Valutiamo solo se sono stati a lungo nel Paese di arrivo e decidiamo se accogliere o meno la domanda per le persone più vulnerabili». Non sempre i siriani lo sono, secondo le autorità elvetiche, ma la Confederazione continua a essere uno dei posti più gettonati. Il diritto a fermarsi viene infatti riconosciuto anche a chi abbia parenti o amici : prima c’erano i «visti facilitati », poi a causa l’alto numero di domande si è tornati alla legislazione ordinaria, che prevede però che la famiglia abbia i mezzi per ospitarli nei primi tre mesi. «Non facciamo statistiche sulle condizioni economiche», aggiunge Kohlprath, «ma è chiaro che alcune garanzie vanno date».
La Svezia, che da settembre concede lo status di residente permanente, è la meta preferita di chi arriva in Italia: il 38 per cento vuole andare là, a raggiungere familiari o amici. Qui la classe sociale conta meno, perché lo Stato è più “generoso”. Ma non sempre basta. Al mensile Kapital i siriani più ricchi raccontano che non si sentono del tutto a loro agio: «La Svezia è una grande bugia», dice Givara, che ad Aleppo aveva una fabbrica di vernici. Ha speso 16mila euro per arrivare fin qui. «Se tornassi indietro forse sceglierei la Turchia. Ma forse penso questo solo perché in Siria la mia era una vita confortevole. Faccio fatica ad abituarmi». Architetti, artisti, commercianti. Rashid Abualhidzha Noh, a Damasco, aveva due macellerie e due negozio di alimentari. Ora fa l’apprendista in un supermercato; Salah Debas era un apprezzato dj, viaggiava in tutto il Medioriente, tra i locali di Dubai e quelli di Beirut: aspetta di trovare un lavoro, intanto studia lo svedese. Quelle di Kapital sono storie limite? «Ho visto arrivare ragazzi laureati in letteratura inglese che si fingevano belgi per sfuggire ai controlli», dice Manuela Brienza. «Forse non tutti sono ricchi, ma li muove la disperazione, non la povertà».
Nei campi in Libano o in Giordania, alla fine, resta chi non ha mezzi. «Più che professionisti, qui ci sono agricoltori, braccianti, contadini», racconta Francesca Pini, desk emergenze per Oxfam Italia. «In parte questo si spiega con la geografia del territorio. Nel Nord del Libano e nella valle della Bekaa ci sono vaste coltivazioni di olivi: i siriani da generazioni vengono qui a lavorare, ad aiutare nella raccolta. Per loro è stato quasi automatico fermarsi da questa parte del confine. C’è poi chi ha scelto di arrivare in Libano per affinità religiosa, sciiti con sciiti e sunniti con sunniti; infine, c’è l’enorme diaspora palestinese che è passata dal campo profughi di Yarmuck, alle porte di Damasco – il più grande in Siria – , ai campi libanesi».
Il Libano, memore dell’esodo dalla Palestina, non vuole altri campi. A differenza della Giordania, qui ci sono solo enormi tendopoli che non devono diventare stanziali. «Lo scopo delle autorità di Beirut è favorire il ritorno, non la permanenza», aggiunge Pini. Nonostante Ue e Usa finanzino abbondantemente i due Paesi (che insieme accolgono quasi due milioni di rifugiati), le condizioni minime non sempre sono garantite. «Ufficialmente non possono nemmeno lavorare, così sono sottoposti al ricatto di chi li assume illegalmente, magari in cambio di un buco di appartamento», spiega ancora la cooperante di Oxfam. «Ma all’inizio non era così: molti dei primi arrivati, nel 2012, avevano un reddito che gli consentiva un minimo di scelta. Qualcuno poteva andare persino in albergo. Ma poi, si fa presto a finire i soldi». E restare intrappolati tra le tende e la guerra.