«Poeticamente abita l’uomo», scriveva Hölderlin. Quel famoso distico del poeta tedesco torna a risuonare come un leitmotiv nel nuovo libro di Vincenzo Trione, Effetto città (Bompiani): un appassionato viaggio fra pittura, cinema e architettura, per raccontare una delle più affascinanti invenzioni umane, la città, le sue trasformazioni, le relazioni umane che la animano, le possibilità impreviste di incontro che può offrire.
Neodirettore del Padiglione Italia della 56esima Biennale d’arte di Venezia, in questa “opera mondo” di oltre ottocento pagine, Trione mette tutta la sua sensibilità di critico d’arte, le sue competenze di studioso di architettura, ma soprattutto dieci anni di ricerca, quasi ossessiva, andando a caccia di immagini pittoriche e cinematografiche capaci di rappresentare il vero volto di un paesaggio urbano (qualunque esso sia), la sua immagine invisibile e più profonda, il “genius loci”, le atmosfere che si respirano nelle sue strade, nelle sue piazze, nei suoi palazzi, ciò che lo rende unico.
Prendendo le distanze, già nelle prime pagine, dall’antimoderno Pasolini e dalla sua nostalgia per la campagna e le borgate pre moderne, l’avventura di Trione negli scenari metropolitani, quasi inevitabilmente, parte dalla Parigi di fine Ottocento, città moderna per antonomasia, di cui Baudelaire è stato forse il primo vero cantore, per proseguire poi a Vienna e nelle altre capitali delle avanguardie storiche, raggiungendo Mosca con Majakovskij («Le strade sono i nostri pennelli, le piazze sono le nostre tavolozze», disse nel 1918 lanciando una nuova poetica) e New York con artisti della diaspora come Rothko, fino ad arrivare alle post metropoli, alle megalopoli asiatiche, alle sterminate città che nell’orizzonte della globalizzazione sembrano crescere in maniera cacofonica o che invece, proprio nell’intreccio di culture diverse e lontane, riescono a trovare una nuova identità originale.
L’autore di Effetto città (il titolo è un evidente omaggio al film Effetto notte che Truffaut girò nel 1973) è profondamente innamorato del suo oggetto di studio e intrecciando discipline diverse (storia dell’arte, antropologia, letteratura, filosofia ecc) costruisce una trama avvincente che rende contagiosa questa sua passione. Basta “assaggiare” qualche paragrafo come, ad esempio, quello intitolato “Verso Vertov” in cui con i Passagenwerk di Benjamin, Vincenzo Trione invita idealmente il lettore a farsi flâneur, tuffandosi per le strade di Parigi per mettersi sulle tracce di Charles Baudelaire, «regista involontario» ne Il pittore della vita moderna, in cui tratteggiava «lo spettacolo inebriante della metropoli» invitando a scoprire i soggetti terribilmente seduttivi che la animano.
Per passare poi a romanzieri come Balzac e Hugo, come Melville e Poe che ne L’uomo della folla racconta il fascino avventuroso della città, attraverso la cronaca di uno sfioramento a distanza fra due conosciuti. E se sul grande schermo è stato Dziga Vertov uno dei primi registi a saper cogliere il senso della città come flusso vitale e organismo vivente in costante mutamento, sul piano della riflessione teorica, oltre al filosofo Georg Simmel, è stato il sociologo e urbanista Lewis Mumford a raccontare in modo positivo la metropoli, vedendola come «complessa orchestrazione di tempo e di spazio», come un’avvolgente sinfonia destinata a moltiplicare modelli e modi di espressione. «Il pensiero prende forma nelle città e a loro volta le forme urbane condizionano il pensiero», scriveva l’autore di Storia dell’utopia (1922)e di Passeggiando per New York (recentemente ripubblicati da Donzelli).