In rete spopolano notizie false e siti specializzati in clickbaiting, cioè nel “mettere esche per i click”. Dietro, si nasconde un mix di populismo, razzismo, omofobia e business. Perché spesso il net-liberismo rischia di rovinare l’utopia del citizen journalism.

Autobus gratis per i Rom dal 1 Aprile. Decine di migliaia di condivisioni. Alcuni aerei rilasciano scie di agenti chimici utili a farci controllare dai guardiani del Nuovo ordine mondiale. Valanghe di visualizzazioni e persino una manifestazione per sensibilizzare sul tema, tenutasi a Modena nel dicembre 2013, con un centinaio di persone presenti. Per poi arrivare allo scandalo dei profughi che buttano via il cibo offerto nei centri di accoglienza, sino alla notizia della “dichiarazione” da pubblicare con urgenza su facebook, divenuta nuovamente virale negli ultimi giorni, per impedire che Zuckerberg utilizzi a proprio piacimento foto e contenuti che abbiamo pubblicato.

Tutte notizie false, naturalmente, ma che sono ugualmente riuscite a fare breccia e diffondersi in modo capillare nelle timeline degli utenti dei social network. Fenomeno folkloristico e innocuo? Non per il World Economic Forum che nel consueto report annuale del 2013 parlava della «disinformazione digitale di massa» come «uno dei principali rischi per la società moderna». Se si considera poi che gli iscritti a facebook hanno ormai superato quota 1,3 miliardi di utenti, più di 800 milioni dei quali vi accede quotidianamente, e che secondo una ricerca del Pew research center di Washington quasi il 30% degli americani usa i “social” per informarsi, allora la situazione si fa più seria.

In effetti la cosiddetta “omofilia”, ossia quel meccanismo che nel web 2.0 ci fa visualizzare contenuti vicini ai nostri gusti e alle nostre passioni, potrebbe far sottovalutare ai non amanti del genere la portata del bacino informativo del “falso” e del “sensazionalistico”: esso, in realtà, è alimentato da decine di siti specializzati, che fanno del “titolone choc”, del catenaccio infondatamente allarmista (cioè del clickbaiting, letteralmente “mettere esche per i click”) oppure della vera e propria “fandonia”, il loro core business. Cambia lo stile, ma lo scopo delle “testate” è lo stesso: acchiappare visualizzazioni da monetizzare con le pubblicità, a discapito della qualità dell’informazione. Più la notizia parla alla pancia dell’utente, solleticando appetiti “facili” come curiosità morbosa, invidia, razzismo, più essa trova mercato in questi luoghi, anche a costo di sfociare nell’assurdo.

Il blog Losai.eu, ad esempio, affianca la news di alcuni gay che avrebbero sputato a una donna incinta (fonte incontrovertibile: un commento su facebook di una certa Paola) alla riscoperta del geocentrismo, insabbiata dalle lobby petrolifere. Già perché complottismo, esoterismo, omofobia, tradizionalismo, xenofobia, vanno a braccetto in questa porzione di informazione: sono ben accette tutte quelle categorie che permettono di creare una “massa” e mettergli di fronte un nemico, come nella più classica ricetta di ogni populismo. Per giunta, nell’apertura del sito appena citato, è impresso il celebre versetto del vangelo di Giovanni: “conoscerete la verità e la verità vi renderà liberi”.

Citazione che esprime la stessa pretesa di autenticità e di autonomia dai poteri forti che si respira nel sito Tzetze.it, famoso per i lanci sensazionalistici, per i VERGOGNA! e i CLAMOROSO! scritti rigorosamente in maiuscolo e anche per il fatto che le sue notizie sono ospitate quotidianamente nel blog di Beppe Grillo. Piccolo particolare: Tzetze.it è di proprietà della Casaleggio Associati. L’obiettivo della testata, si legge, «è di promuovere l’informazione indipendente in Rete svincolandosi dai mainstream media e di pubblicare le notizie in funzione dell’importanza attribuita loro dagli utenti». La descrizione perfetta di un sito di contro-informazione.

Ed è proprio in luoghi con tali sembianze che i consumatori di mala-informazione si cibano di news. A sostenerlo è un gruppo di ricercatori delle Università di Lucca, Lione e della Northeastern di Boston che, tra il 1 settembre 2012 e il 28 febbraio 2013, hanno studiato un campione di 2,3 milioni di individui tra 50 pagine facebook suddivise in 3 categorie: media mainstream, informazione alternativa e pagine di attivismo politico. Nelle conclusioni della ricerca, si può leggere che «dei 1.279 utenti individuati per aver interagito con notizie scritte da troll, una percentuale dominante è costituita da utenti che interagiscono prevalentemente con fonti di informazione “alternativa”».

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 13 dicembre 2014