Un mix di abilità militare e strategia comunicativa. Un potere economico conquistato anche sul campo. L’Isis vuole dissolvere gli Stati Nazione. E potrebbe anche riuscirci.

Anno 2014. Anno del “Califfo” e della nascita del primo Stato jihadista al mondo. L’anno di Ali Bakr al-Baghdadi. L’anno di un terrorismo che si fa holding, con un impero petrolifero che occupa un’area grande più o meno come la Gran Bretagna, e che comprende circa trecento pozzi petroliferi nel solo Iraq, mentre in Siria, lo Stato Islamico ha il controllo del 60 per cento della capacità produttiva del Paese, con la bandiera nera che sventola sulle province di Aleppo, Raqqa, Al Hasaka e Deir Ezzor.

Il prezzo che lo Stato islamico ottiene per il combustibile di contrabbando è scontato – dai 25 ai 60 dollari per un barile di petrolio, che si vende normalmente per più di 100 dollari – ma i profitti totali derivanti dal combustibile superano i tre milioni di dollari al giorno, rileva Luay al-Khatteeb, della Brookings Institution in Qatar. Fuori dall’Iraq, la holding jihadista dell’Is ha guadagnato centinaia di milioni di dollari dal contrabbando di antichità: gli oggetti sono venduti in Turchia, sostiene al-Khatteeb. Altri milioni arrivano dal traffico di esseri umani con la vendita di donne e bambini come schiavi del sesso. Altre entrate arrivano da estorsioni, riscatti di ostaggi rapiti e furti di materiali provenienti dai paesi dell’Is, beni sequestrati dagli estremisti.

2014: l’anno che nel Grande Medio Oriente segna la dissoluzione di Stati-nazione che restano tali solo sulla carta: Iraq, Siria, retti da governi centrali che non hanno più il controllo di gran parte del territorio nazionale. E sembra solo l’inizio di un effetto domino devastante. Altri Stati “artificiali” come la Libia, lo Yemen, la Giordania, il Bahrein, l’Oman e l’Arabia Saudita potrebbero disgregarsi del tutto. L’anno dell’Is, che riempie i vuoti prodotti dall’implosione dei suoi nemici.

2014: l’anno dei tagliagole che ostentano la loro spietatezza, infieriscono sul nemico, massacrano i prigionieri, sgozzano gli ostaggi. E poi distribuiscono via Internet i video delle decapitazioni, terrificanti strumenti di propaganda e di proselitismo per il “Califfo Ibrahim”. Oggi alla decaduta suggestione panaraba si sostituisce quella, ben più aggressiva e mobilitante, della Umma, la comunità musulmana che spazza via gli Stati-nazione coloniali. Il 2014: l’anno della piovra qaedista che estende i propri tentacoli in un numero crescente di Paesi: Siria, Iraq, Libia, Egitto, Arabia Saudita, Yemen, Somalia, Afghanistan, Pakistan, Indonesia, Australia, Canada, Bosnia, Croazia, Albania, Algeria, Tunisia, Mali, Marocco, Libano, Giordania, Filippine, Tagikistan, Azerbaigian, Kenya, Tanzania, Nigeria, Kashmir in India e Cecenia in Russia. Comunque si concluda questa vicenda, una cosa resta agli atti: l’ascesa dell’Is narra anche (perché in qualche modo ne è il frutto avvelenato) il fallimento delle politiche dell’Occidente nella regione, il lascito di avventure militari – a cominciare dalle due guerre irachene – che pretendevano di stabilizzare il Medio Oriente ma che, al contrario, lo hanno reso una polveriera (nucleare) pronta a esplodere, con conseguenze devastanti che andrebbero ben oltre i confini regionali.

La svolta del 2014 nel Grande Medio Oriente non è nel segno della speranza di un consolidamento dei processi democratici. Ciò che si respira non è una salubre aria di libertà, ma è il tanfo opprimente delle fosse comuni, delle pulizie etniche, degli esodi biblici, dell’orrore che corre sul web, delle decapitazioni esibite dai “guerrieri di Allah”, dei bambini trucidati in Pakistan. La spietatezza non conosce confini, in una gara in cui l’asticella dell’orrore si alza sempre più. Nulla sarà come prima.

l’articolo integrale su left in edicola da sabato 27 dicembre 2014