Un terremoto politico di dimensioni europee. Dal risultato delle elezioni di domenica 25 gennaio uscirà un governo che, per la prima volta da quando è esplosa la crisi del debito, dirà un chiaro e sonoro no alla politica di austerità. Lo dirà con un argomento forte e difficilmente confutabile: la catastrofe umanitaria provocata per quattro lunghi e terribili anni in Grecia.
Un Paese dell’Eurozona ridotto in condizioni da sottosviluppo con 1,3 milioni di disoccupati (27%), la metà della popolazione sotto la linea della povertà (meno di 5.000 euro l’anno), il ceto medio distrutto con un Pil che è sceso del -26% in sei anni. Una guerra contro il popolo greco. Sarà un incubo per il blocco di potere tra la destra neoliberista e le centrali finanziarie che hanno dominato nell’Ue fino a oggi, del tutto incontrastate.
Finora, la collaborazione tra popolari e socialisti nelle istituzioni europee ha sostanzialmente ridotto le critiche alla politica economica in vigore a timide prove di sganciamento (Hollande) o a mere dichiarazioni verbali (Renzi). Ora si tratterà di affrontare un governo che la contesta in toto, si rifiuta di applicarle e pone il debito al primo posto, chiedendo tagli e condizioni di sviluppo per iniziare la restituzione. E non solo. Il nuovo governo greco ha in mente un tipo di sviluppo di tipo keynesiano, sostenuto cioè da fondi pubblici, agli antipodi rispetto a quello imposto dalla troika (Bce, Fmi e Commissione europea), sostanziamente complementare rispetto alle forti economie del nord Europa Alexis Tsipras, il leader della Coalizione della sinistra radicale (Syriza), ritiene giustamente che l’affermazione del suo governo non si limiterà a porre su nuove basi i rapporti tra Atene e Bruxelles.