È il tempo a dare senso alle cose: lo scorrere che segna una traccia, che individua un prima e un dopo (senza contare il “durante”), che delinea un movimento. Carmen Consoli di cose ne ha fatte nei cinque anni che separano Elettra dall’ultimo album, L’abitudine di tornare, appena uscito per Universal music.
Una delle migliori cantautrici del panorama italiano, lontana (si fa per dire) dalla musica, ha letto il senso di molte storie che la circondavano, trovando la chiave per raccontarle in questo disco ricco di attualità. Crisi, immigrazione, violenza sulle donne, omosessualità caratterizzano molte delle canzoni per le quali si è messa un po’ nei panni di una cronista.
«Questi anni li ho passati tra la gente, vivendo anche qualche esperienza filtrata dai media, ma cercando sempre una chiave di compassione, intesa come condivisione del dolore», racconta. «Sono andata al mercato, sono uscita la sera, ho ascoltato le persone». Cercando di non puntare il dito: «Sembra che io sia definitiva, alle volte, ma non è così. È che ho pur sempre tre minuti per esprimermi in una canzone». E dove le parole non bastano, meglio lasciar fare alle “note subliminali”, alle armonie che bussano alla porta per arrivare dove il vocabolario non sembra adeguato.
Dopo tutto, è di musica che si parla: «Un disco lo concepisco nel suo insieme, non sarei capace di farne uno a tavolino». Anche per questo il tempo è trascorso fin quando non ha sentito di aver di nuovo qualcosa da comunicare. È successo tra luglio e agosto scorsi: i dieci brani che compongono il disco sono stati scritti allora. A settembre l’ingresso in studio per registrare. Né prima, né dopo.
Carmen Consoli conferma la peculiare abilità – che spicca in un panorama che si mostra spesso stantio – a raccontare vicende e dinamiche in un buon equilibrio tra ciò che viene pale- sato e ciò che si lascia intuire. Le melodie rimangono in testa, anche quelle dei brani meno incisivi, e funzionano sia nella veste composita di studio, sia suonate chitarra e voce. «È in questa versione che le ho pensate», dice dopo averle interpretate in anteprima a Milano. «Poi mi sono affidata agli stimoli di Massimo Roccaforte e Gianluca Vaccaro, con i quali l’ho prodotto e che hanno aggiunto nuove idee al mio modello Eva contro Eva (2006). È il risultato dell’incontro di tre personalità». Quattro, se si aggiunge Toni Carbone (Denovo), tra le altre cose ingegnere del suono, che le ha insegnato a suonare il basso e con il quale lo sguardo si incontra spesso, mentre canta per la prima volta davanti alla stampa le nuove composizioni.
“Esercito silente” è l’unico brano su cui spende due parole prima dell’esibizione: «Perché bisogna distinguere tra due eserciti. Quello che tace per omertà, e quello che lo fa per impotenza». Si parla di Palermo, del peso della sua storia (“Volano gli aeroplani, le scie come trame si intrecciano/ quell’aeroporto è uno scempio che adesso porta un nome di rispetto”), di una terra divisa tra la volontà di nascondere e l’impossibilità di far emergere (“Chissà se il buon Dio per- donerà il silenzio”).
E per quanto non voglia entrare nel discorso politico perché pensa di non averne le “competenze”, parla di un’assenza, di una dimenticanza nei confronti della Sicilia, e di un attacco, generalizzato e nazionale, negli ultimi anni, al mondo culturale. Attenzione però a non inserire i “personaggi” protagonisti delle sue canzoni nella casella dei vinti, oppure dei vincitori: «I confini non sono mai così netti. Mi piace pensare che ognuno di loro sappia trovare un’opportunità, nell’avversità». “La signora del quinto piano” racconta dell’omicidio di una donna per mano dell’uomo che diceva di amarla: un racconto incisivo che per immagini trasmette non solo un terribile fatto di cronaca, ma anche l’indifferenza con il quale viene gestito («Ah… dimenticavo… I funzionari della questura continuano a dire che non c’è alcuna ragione di avere paura»).
Bravissima come sempre, Carmen Consoli, a descrivere la violenza, così come fece con “Mio Zio” (in “Elettra”). Ed è questa l’unica cosa che uscirà sempre male dalle sue composizioni, e questo disco lo conferma: la violenza «che è delle persone, non di uomini o donne». Riportando un caso a Catania nel quale fu il marito a trascinare la moglie in tribunale per percosse, la cantautrice coglie l’occasione per spiegare che non ha nessuna ragione per raccontare in negativo l’universo maschile. «Conosco semplicemente meglio quello femminile, e credo di essere più credibile quando parlo dando voce a una donna», precisa. «Ho un figlio maschio, per cui non potrei non amare gli uomini, e ho avuto un padre femminista che adorava mia madre».
Un altro uomo speciale nella sua vita è Max Gazzè, amico di lunga data – «Ci conoscemmo a Il Locale di Roma, quando lui tornava da Londra e io provavo a combinare qualcosa nella Capitale» – che in questo disco è presente, insieme al fratello Francesco per il testo, in “Oceani deserti”, una delle tracce più belle. A suo figlio ha dedicato “Questa piccola magia”: «Sono un’educatrice abbastanza severa, ma credo che per trasmettere certe cose bastino sguardi e parole incisivi».
Il resto dell’educazione lo fa la soddisfazione del genitore, quando è felice di fare ciò che ama, con passione. Anche a questo sono serviti cinque anni: a godersi la maternità, a fare le cose di tutti i giorni – «anche le minchiate, come si dice in Sicilia» – a guardare di più la televisione, a respirare la quotidianità delle persone, a comprare il pesce dal signor Orazio al mercato, a cambiare giro di amicizie, sentire concerti di musicisti emergenti e lavorare con altri nell’etichetta che ha fondato a Catania.
A sentire i dischi che più le sono piaciuti (quelli del trio Fabi- Silvestri-Gazzè, di Cesare Cremonini e di Mario Venuti) e imparare a suonare un nuovo strumento. Per poi capire che aveva ancora qualcosa da dire. Se così non fosse stato, racconta, non l’avrebbe fatto: «Io me ne sto tanto bene a casa».
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