Una serie di bollettini meteo che hanno il sapore di quelli di guerra hanno caratterizzato la cronaca negli ultimi anni. Terribili alluvioni hanno sommerso intere zone dell’Italia e con loro i sacrifici e le vita di molte persone: Giampilieri (Messina) 2009, Vicenza e Padova 2010, Cinque Terre (La Spezia) 2011, Genova 2011 e 2014, Maremma grossetana 2012 e 2014, Olbia 2013, Carrara 2014, Milano 2014, Senigallia e Chiaravalle (Ancona) 2014, Refrontolo (Treviso) 2014. L’elenco potrebbe continuare a lungo. Anche se questi fenomeni atmosferici sono stati definiti “straordinari” perché in quelle zone “non pioveva così da oltre cent’anni”, le “bombe d’acqua” non sono l’unica causa dei disastri.
Da decenni il rischio idrogeologico non si affronta con efficacia, complici la cementificazione dissennata di zone già caratterizzate da una difficile situazione fluviale e la mancanza di coordinamento nella prevenzione con un continuo “mettiamoci una pezza”. Si poteva intervenire prima e si potrà fare qualcosa per il futuro? Per il responsabile scientifico di Legambiente, Giorgio Zampetti, «è necessario invertire la tendenza secondo la quale fino ad oggi si è pensato di affrontare il dissesto idrogeologico attraverso interventi che hanno mutato sempre più la condizione naturale dei corsi d’acqua».
Ma c’è anche da invertire la rotta rispetto al refrain delle mega-opere: «Servono politiche di gestione del territorio efficaci e meno dispendiose dei grossi interventi strutturali – precisa l’esperto di Legambiente -. Invece di costruire argini con strutture molto costose, fatte per difendere aree agricole che continuano ad allagarsi, si può pensare che quelle zone dei fiumi possano essere allagate in caso di piena, così da creare spazi di contenimento e prevedendo al contempo un indennizzo per gli agricoltori».
In seconda battuta è necessaria una legge che coordini gli interventi su scala di bacino, «nel senso che se si vuole costruire un argine per proteggere un Comune che sta a metà di un corso d’acqua, si deve intervenire conoscendo la situazione lì dove nasce il fiume e prevedendo cosa succederà a valle, nella foce, una volta fatti i lavori». Un aspetto altrettanto importante riguarda le zone a rischio messe in sicurezza ma poi rese edificabili. «Nel caso dell’alluvione di Carrara, è accaduto che una zona R4 (il livello di rischio massimo, ndr) ha subito interventi di messa in sicurezza, a seguito dei quali l’area è stata classificata di pericolosità inferiore. Così, in molti casi in quelle zone si è costruito: questo non è più ammissibile».
L’estate scorsa è stata inaugurata Italiasicura, la struttura di missione della presidenza del Consiglio contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche, coordinata da Erasmo D’Angelis, che spiega a Left: «Lo scandalo italiano degli ultimi trent’anni, la vera vergogna nazionale, che riguarda la politica ma anche i “furbi”, è stato l’aver avuto la possibilità scientifica ed economica di fare della sana prevenzione, evitando scempi che hanno massacrato il territorio, ma non aver mai intrapreso questa strada».
Uno dei target di Italiasicura è la prevenzione, strumento essenziale se ben utilizzato, e al primo posto c’è l’urbanistica. «Negli ultimi trent’anni ci sono stati tre condoni edilizi, una legislazione nazionale senza controllo e regolamentazioni regionali che hanno permesso di tutto – lamenta D’Angelis -. La cementificazione sregolata ha fatto sì che interi corsi d’acqua sono stati cementificati, deviati, raddrizzati, tombati. Questa idraulica che ha coperto i fiumi, specie a ridosso e dentro le città, ha avuto alla base delle valutazioni sbagliate: sono stati intubati dentro delle bombe a orologeria pronte a esplodere e che sono scoppiate nel tempo. Mi riferisco ad esempio a Genova, dove nel 1920 si è detto che la piena del Bisagno era di 500 metri cubi d’acqua, mentre invece è arrivata a 1.400».
Nell’incapacità di coordinare interventi condivisi a livello nazionale, fino ad oggi si è fatto un uso eccessivo delle misura d’urgenza. Il coordinatore di Italiasicura promette di non ripetere gli errori del passato: «L’incubo dell’inseguimento dello stato d’emergenza ha paralizzato un Paese che non ha mai voluto fare prevenzione, trasformandolo in un tristissimo notaio dei disastri. Ma la cosa che mi manda in bestia è che abbiamo sempre avuto ministri dell’Ambiente o dei Lavori pubblici che hanno detto “servono un tot di miliardi per sistemare l’Italia”. L’ultimo è stato Clini… “Ma per fare che?” mi domando io.
Di fronte a cifre sparate a caso, quando siamo arrivati qua abbiamo chiesto un elenco delle opere e degli di interventi necessari per mettere in sicurezza il Paese alle regioni, alle autorità competenti e alla Protezione civile. Certo adesso ci vogliono almeno sei o sette anni di lavoro». Perché queste parole non siano un ennesimo spot, magari un po’ più articolato di quelli sentiti negli anni passati, è necessaria una sinergia tra Stato, Regioni, Comuni e autorità di riferimento. «Al cittadino deluso chiediamo di denunciare le opere sospette che vede realizzare nella propria città – è l’appello dell’ex sottosegretario – In più, le Regioni devono rendere inedificabili le zone a rischio.
Intanto tracciamo il quadro delle delocalizzazioni in itinere grazie al “Collegato ambientale” che si voterà a breve in Senato e che stanzia i primi 10 milioni per spostare le costruzioni che ostruiscono i corsi dei fiumi. Un esempio è il Gargano, dove secondo un report di Forestale e Carabinieri di un mese fa ci sono 50 costruzioni abusive costruite nelle fiumare. Oppure in positivo, la situazione di Messina, dove il sindaco Renato Accorinti ha bloccato un milione di metri cubi di cemento: parliamo di costruzioni definite nel piano regolatore e previste nell’alveo dei fiumi».
La prevenzione di per sé ha costi bassi ma deve fare i conti con i poteri forti e con le casse dello Stato: il nuovo ciclo di opere da realizzare scontenterà qualcuno e ha bisogno di grosse coperture economiche. «C’è una necessità di circa 20 miliardi di euro spalmati su tutte le regioni per un totale di settemila opere – precisa Erasmo D’Angelis -. Di queste le cantierabili sono il 10% e costituiscono, comunque, un punto zero drammaticamente vero dal quale iniziare. Il resto sono studi di fattibilità, progetti ancora da finanziare o da iniziare.
Un esempio per tutti è il caso di Olbia, dove le risorse non si possono spendere perché non ci sono progetti che possano diventare cantieri». Ma dove si trovano le risorse e come spenderle? «Nelle 14 città metropolitane italiane abbiamo un miliardo da spendere in opere cantierabili e qui “la parte del leone” la fa Genova con circa 400 milioni in progetti già esecutivi – chiarisce il coordinatore di Italiasicura -. In più c’è un ritaglio di cinque miliardi di investimenti di fondi di sviluppo e coesione, cioè il ciclo europeo 2014-20 che inizierà tra un anno, e l’impegno delle Regioni a mettere altri due miliardi di co-finanziamenti. Quindi altri sette miliardi da spendere man mano che i progetti arrivano a cantiere.
Anche se oggi avessimo i 20 miliardi complessivi, non li potremmo spendere perché dovremmo aspettare che i progetti siano cantierati». Un programma ambizioso, tutto da realizzare, che i cittadini potranno monitorare vigilando sul territorio e navigando sul sito web georeferenziato italiasicura.governo.it.