La vicenda europea ci dice esattamente che se il Pil - questo pur impreciso e parziale indicatore - non cresce o addirittura cala, è impossibile persino garantire il ben-essere raggiunto. Se non si abbandona il vecchio modo di pensare, le “prospettive economiche per i nostri nipoti” saranno quelle di una stagnazione secolare.

Ilaria Bonaccorsi, nel numero precedente di Left, cita ampiamente una delle poche profezie errate di Keynes, quella contenuta in Prospettive economiche per i nostri nipoti. Secondo l’economista cantabrigense, il “problema economico” era in via di soluzione. Il futuro, non immediato, avrebbe riservato all’umanità molto benessere al prezzo di poco lavoro. Talmente poco che si sarebbe dovuto affrontare il problema psicologico dell’ozio. Tre ore al giorno, cinque giorni a settimana, sarebbero state, secondo Keynes, sufficienti a sedare la noia. Implicitamente, Keynes afferma che per gli scopi puramente economici sarebbero state persino troppe. Le cose purtroppo non sono andate così, e sul perché ci sarebbe molto da dire.

Le Prospettive sono la trascrizione di un discorso che Keynes pronunciò a Madrid nel 1930, all’inizio della Grande Depressione. In quell’anno Keynes è ancora convinto che si attraversasse una crisi passeggera: «Quello di cui soffriamo non sono acciacchi della vecchiaia, ma disturbi di una crescita fatta di mutamenti troppo rapidi, e dolori di riassestamento da un periodo economico a un altro». Non era ancora maturata in lui la consapevolezza che ritroviamo invece nella Teoria Generale del 1936.

Nella sua opera maggiore, Keynes traccia un quadro molto più pessimistico del capitalismo moderno e della sua capacità di assicurare un duraturo benessere. Lo ritiene anzi incapace, da solo, di garantire non solo l’equa distribuzione dei redditi, ma anche i redditi stessi per una parte consistente della popolazione, quella che rimane disoccupata. Per correggere i difetti del capitalismo, spiega Keynes, è necessario che lo Stato intervenga attraverso una non piccola “socializzazione dell’investimento” e assicurare con vari mezzi l’equa distribuzione della ricchezza e dei redditi. In caso contrario, il rischio è quello di un prolungato stato di bassa attività e grande disoccupazione.

Nel 1940 Keynes diviene ancor più pessimista e ammette che la sua soluzione, l’intervento dello Stato nell’economia, incontra ostacoli politici quasi insormontabili, se non in casi eccezionali, come una guerra. Se non si abbandona il vecchio modo di pensare, le “prospettive economiche per i nostri nipoti” saranno quelle di una stagnazione secolare.

Keynes muore nel 1946, ma i 30 anni di Keynesismo successivi ci avevano regalato l’illusione di aver risolto non solo il “problema economico” (la sopravvivenza) ma persino quello macroeconomico (la disoccupazione ciclica). Se però oggi guardiamo la Grecia, i suoi malati senza cure, la povertà dilagante, ci rendiamo conto che il problema economico – la sopravvivenza stessa – è tutt’altro che risolto, per molti.

La Grecia ha visto calare il suo Prodotto Interno Lordo pro capite del 22% dall’inizio della crisi. È disoccupato un quarto della forza lavoro e il 60% dei giovani. L’Italia ha numeri un po’ meno drammatici, ma comunque pesantissimi. Certo, non siamo tornati al Medioevo e neppure alla povertà degli inizi dell’era del capitalismo industriale. Ma la vicenda europea ci dice esattamente che se il Pil – questo pur impreciso e parziale indicatore – non cresce o addirittura cala, è impossibile persino garantire il ben-essere raggiunto.

In fondo i 30 anni di Keynesismo cui accennavamo furono gli anni del tanto vituperato consumismo, alimentato soprattutto dai redditi e da una crescente eguaglianza sociale, com’era nei sogni di Keynes. Qualcuno potrebbe mai capirci se oggi dicessimo che quello non era ben-essere?

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