Lo strapotere di Google e Facebook, la censura per i blog, le cause temerarie. In Meglio se taci Alessandro Gilioli spiega perché il bavaglio va sempre di moda.

Meglio se taci. Alessandro Gilioli, giornalista de L’espresso, e Giulio Scorza, avvocato e docente di diritto delle nuove tecnologie, nel loro ultimo libro “istigano” alla rivoluzione, quella per la libertà d’informazione che passa per «un accesso libero, non discriminatorio e neutrale alla rete». Una rivoluzione già in atto, di cui protagonisti sono «tanti ragazzini pieni di estro, genio, creatività che all’estero danno vita a piattaforme di informazione dal basso, citizen journalism e whistleblowing in stile Wikileaks» ma che in Italia, raccontano i due autori, avrebbero gettato la spugna, patteggiato la minore delle pene possibile e rinunciato ad esprimersi.

Troppo duro lo scontro contro il dinosauro a tre teste (malapolitica, tv e giornalismo della carta) che non ha intenzione di estinguersi, né di evolversi, e sbatte la coda per sfasciare tutto. Un colpo è, per esempio, l’ultimo ddl che riforma la legge sulla stampa, approvata al Senato e in discussione alla Camera. Per capire se è veramente l’ennesima «legge bavaglio», ne abbiamo parlato con Alessandro Gilioli.

Il dubbio che questo ddl possa essere una difesa contro tanto pessimo giornalismo le è mai venuto?

Certo che sì: la nostra categoria è sputtanata almeno quanto quella dei politici e l’Ordine renderebbe miglior servizio al Paese se si autodissolvesse, dato che serve solo a perpetuare se stesso e a mettere recinti alla libera comunicazione. La battaglia invece è per non far retrocedere ulteriormente un Paese che è già al 49° posto nel mondo per libertà di espressione: non per difendere una categoria scarsamente stimata.

Una delle cose che prevede questa riforma è che in caso di diffamazione non ci sia più il carcere per i giornalisti, ma multe fino a 50mila euro. Eppure giuristi e cronisti sono arrivati a dire: #meglioilcarcere. Perché?

La nuova norma è stata pensata per mettere al sicuro politici e potenti del-l’economia non “dai giornalisti”, ma dalle critiche in genere, anzi soprattutto da quelle dei semplici cittadini, sui social  o nei blog. I giornalisti assunti in un’azienda non temono più di tanto quelle multe, che vengono pagate dagli editori che sono assicurati; al contrario, i cittadini che non hanno le garanzie dei giornalisti assunti si troveranno in una condizione di maggiore fragilità. Lì scatterà l’autocensura.

Altro punto contestato del ddl è il diritto all’oblio: chi crede di essere oggetto di diffamazione potrà scrivere a siti web e persino a motori di ricerca, chiedendo di eliminare quei contenuti ipoteticamente diffamatori.

Sul diritto all’oblio la soluzione più intelligente mi pare quella indicata dal Garante per la Privacy, nel 2013, quando ha proposto di non cancellare nessuna notizia, anche se superata dai fatti, bensì di aggiornarla. Quindi se uno scrive che il signor Y è probabilmente un ladro e poi il signor Y viene prescritto o assolto, non si cancella l’accusa ma la si integra con un visibile “update”. Tutte le altre formule di diritto all’oblio, in questa legge così come nella sciagurata sentenza della Corte di giustizia dell’Ue che delega il potere di cancellazione a Google, sono violazioni del diritto alla conoscenza, alla cronaca, alla storia.

Ma le risposte vanno date. Le regole della comunicazione da noi sono ferme al 1948. Chi deve farlo e come?

Contemperare il diritto alla privacy e all’onorabilità con il diritto di cronaca e di opinione non è facile, ma nemmeno impossibile. Pensare che la strada giusta sia quella penale, nel 2015, è fuori dal tempo. Oggi il patrimonio più importante per ogni cittadino è la reputazione: tanto quella di chi ha diritto a non vedersi attribuire pubblicamente fatti che non ha commesso, quanto quella di chi scrive le sue opinioni, sia giornalista o no. Quest’ultimo perde ogni autorevolezza e credibilità se viene identificato come “bufalaro”: quindi il modo migliore per contemperare i due diritti sarebbe semplicemente un sistema di rating (publico) che classifica sia chi scrive sia chi fa causa contro chi scrive. Dopo la quarta o quinta volta che un giudice stabilisce che Tizio è un bufalaro chi crederà più a quello che scrive Tizio? Dopo cinque o sei volte che Caio fa causa per diffamazione e il giudice gli dà torto, che reputazione avrà Caio, se non quella di chi tenta di censurare? Oltre questo scenario forse futuribile, già da subito si possono bilanciare meglio le cose. Ad esempio, se il querelante ha torto, alla fine paga lui, fino all’ultimo euro, rimborsando anche i danni morali di chi ha dovuto perdere il sonno per difendersi da un’accusa infondata.

Nel libro ripetete che «un “freedom of information act” sarebbe un antidoto contro le mazzette». Ma che l’unica cosa che si percepisce in Italia è un «ostruzionismo burocratico regolamentare». Domanda retorica: un’informazione poco trasparente serve a una politica poco trasparente?

Un Freedom of information act costringerebbe alla più assoluta trasparenza su appalti e gare, e quindi sarebbe un colpo contro la corruzione a ogni livello. Ma, certo, è un po’ come con il famoso tacchino che difficilmente è felice quando arriva il Thanksgiving: non tutta la politica è così entusiasta di una norma che abbatte la corruzione.

Anche la rete non è un’oasi di libertà. facebook, twitter e google sono i padroni, noi gli ospiti. Da una parte loro garantiscono la comunicazione, dall’altra si riservano diritti e poteri assoluti.
Siamo talmente imbevuti di mentalità proprietaria e privatista da considerare normale che Facebook ci possa censurare perché “tanto è un’azienda privata”. Sciocchezze: l’iniziativa privata non può prescindere dall’interesse pubblico. E l’articolo 21 della Costituzione non può essere calpestato da presunte policy aziendali e da censori che spesso non capiscono gli stessi contenuti perché scritti in altre lingue. Nel libro abbiamo raccontato tre o quattro casi di censura esilaranti, per la loro stupidità. Ma non c’è molto da ridere, se le corporation del web diventano i nuovi poliziotti della Rete.

A chi tocca decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato che il mondo veda? Sulla carta lo decidono l’editore e il direttore, ma è giusto che riguardi anche un intermediatore di contenuti altrui?
Se l’intermediatore non ha responsabilità per i contenuti immessi da altri, com’è giusto e com’è stato stabilito a livello Ue, non si capisce perché poi debba avere il potere di filtrare e censurare contenuti. Se usa questo potere, assume implicitamente la responsabilità di quanto fa apparire e contraddice quella non responsabilità a cui tutti gli intermediatori tengono moltissimo. È una questione da risolvere con norme nazionali o internazionali che siano cogenti e rispettino i principi di libertà costituzionale: nessun intermediario, in nessun Paese, può essere più censorio delle leggi del Paese in questione. Ad esempio, in Italia: nessuna censura preventiva e la possibilità di oscurare un contenuto solo su decisione della magistratura, che valuta sentendo le parti e concedendo appelli. Sono principi di base. Oggi Fb, Twitter o Youtube invece sono allo stesso tempo poliziotti, giudici e legislatori.

«La poca democrazia dei network può indebolire quella della società reale», denuncia il filosofo Peter Ludlow. Sta accadendo questo?

Ludlow fa presente che se ci abituiamo a pensare che è lecito e normale essere censurati da un’azienda digitale, disimpariamo a considerare la libertà d’espressione un valore inalienabile e rischiamo di finire per considerare accettabile essere censurati in genere. Temo non abbia torto.

Le cinque cose peggiori di quello che definite il bestiario della regolamentazione anti-digitale italiana?

Più che di regolamentazione anti-digitale, anche se poi molte norme impattano soprattutto sulla rete, parlerei di norme contro la libertà d’espressione, che ci dicono appunto “meglio se taci”. Tra le varie brutture ci sono senz’altro la norma del 1948 sulla stampa clandestina, che oggi non so se fa ridere o piangere; il reato di esercizio abusivo della professione giornalistica, che è frutto del combinato tra l’articolo 348 del Codice penale e la legge sull’Ordine del 1963; la legge 41 del 1990, che è il contrario esatto di un Freedom of information act; il regolamento Agcom sul copyright, che rende il nostro Paese l’unica democrazia al mondo in cui un’autorità amministrativa e di nomina politica può oscurare dei siti Internet. Poi ovviamente ci sono infinite regole minori che, interpretate in modo stupido, producono risultati tragicomici. Nel libro raccontiamo la vicenda del titolare di una piadineria di Asti che è finito nei guai per aver messo a disposizione dei clienti quattro tablet: gli è arrivata la Finanza contestandogli di gestire “apparecchiature atte al gioco d’azzardo”, perché ovviamente con i tablet si può “anche” andare sui siti di scommesse.

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