Al governo di Matteo Renzi si concede ciò che non era concesso al centrodestra. Un progressivo avvicinarsi alle tesi liberiste non solo dei dirigenti del centrosinistra ma anche degli elettori del Pd.

Dite la verità: ve lo siete chiesto anche voi. Anche voi avete pensato di scriverlo su facebook, almeno una volta. «Ma se questa cosa l’avesse fatta o detta Berlusconi, come avremmo reagito?». Avremmo reagito male, lo sapete. Solo che al governo di Matteo Renzi si concede ciò che non era concesso al centrodestra, e questo è il punto da cui oggi parte Left nel provare a raccontare quello che solo in parte è il risultato di uno slittamento culturale, un progressivo avvicinarsi alle tesi liberiste non solo dei dirigenti del centrosinistra ma anche degli elettori del Pd.

Per il resto è il risultato della narrazione del premier, che ha permesso di spacciare il terzo consecutivo governo di larghe intese, per un governo invece politico e monocolore. Color Renzi.

E invece non è così, e basterebbe contare i ministri di origine berlusconiana, i centristi, i confindustriali, per accorgersene. Angelino Alfano, ministro dell’Interno, Beatrice Lorenzin, alla Salute, con nel cassetto, chiusa, la nuova legge sulla fecondazione assistita, Maurizio Lupi, alle Infrastrutture. L’Udc Gian Luca Galletti, all’ambiente, l’ex montiana Stefania Giannini alla Scuola (e chissà perché si parla sempre di aumentare i contribuiti alle scuole private). Federica Guidi, già vicepresidente di Confindustria, allo Sviluppo economico. Potremmo proseguire con i sottosegretari, ma sarebbe lunga. Poi basterebbe fare il punto sulle cose fatte, i risultati di un primo anno di Renzi a Roma. Vediamoli.

La cosa più facile è cominciare dal Jobs act

Basterebbe prendere la dichiarazione di Angelino Alfano, immortalata dalle telecamere quando il parlamento approvò definitivamente la delega al governo, per doversi fermare a riflettere. È una di quelle dichiarazioni che verrano citate per anni: «Stiamo facendo una riforma di centrodestra con un governo di centrosinistra». Come logica fa acqua da tutte le parti – perché mai questo dovrebbe essere un governo di centrosinistra, se c’è Alfano, resta un mistero – ma il punto politico rivendicato dal ministro dell’Interno è chiarissimo. Dietro gli slogan di Matteo Renzi, sul lavoro, non c’è solo il maglioncino di Sergio Marchionne, c’è il sorriso di Maurizio Sacconi.

Susanna Camusso, segretaria della Cgil, sta provando senza troppo successo a disinnescare le parole chiave del premier: lei il contratto a tutele crescenti lo chiama «contratto a monetizzazione crescente», cercando di spiegare che alla fine, stringi stringi, la principale innovazione introdotta è l’abolizione dell’articolo 18. Abolito, è l’ironia, anche con i voti di Guglielmo Epifani, ex segretario della Cgil. Ricordate la piazza del circo Massimo, il mare rosso ai piedi di Sergio Cofferati? Era il 2002 e c’era anche Epifani, all’epoca numero due di quella Cgil. «L’articolo 18 non si tocca» dicevano insieme. «Non lo tocchi Berlusconi » era il senso, abbiamo scoperto adesso.

Non è stato però il solo, Epifani, ad aver cambiato idea. Si può fare un rapido elenco con gli ex sindacalisti Cgil che hanno votato la riforma che fa felice Maurizio Sacconi: Cesare Damiano, Teresa Bellanova, Luisella Albanella, Patrizia Maestri, Cinzia Maria Fontana, Marco Miccoli. Poi c’è anche l’ex operaio Antonio Boccuzzi, simbolo della tragedia dello stabilimento ThyssenKrupp di Torino. Potremmo continuare, anche qui. Poi, certo, Cesare Damiano, insieme ad altri della minoranza dem, oggi si lamenta, e condanna l’estensione del meccanismo della monetizzazione anche ai licenziamenti collettivi mascherati da individuali: «È eccesso di delega» ripete.

Renzi, comunque, ha preferito ascoltare ancora Sacconi: «Chiediamo al Consiglio dei ministri di disattendere il parere contrario sui licenziamenti collettivi delle commissioni Lavoro» ha chiesto l’alfaniano. Accontentato. Anche l’idea di aprire alla possibilità di demansionare un lavoratore pure se non ci sono licenziamenti da evitare è di Sacconi. Accontentato nuovamente. «Vedrete funzionerà» ripetono comunque a Left tutti i renziani interpellati (per tutti la domanda è: «Non vi fa venire qualche dubbio fare una riforma che piace a Maurizio Sacconi?»). «Anche le recenti assunzioni della Fiat e i dati dell’Istat», dice una dirigente del Pd, «sono lì a dimostrare che può funzionare, che si può tornare ad assumere ». Vedremo.

Intanto sappiamo che dei tanto sbandierati 88.000 posti di lavoro in più nel 2014, solo 18.000 sono a tempo indeterminato e 79.000 sono invece a termine. Comunque a fare una rapida sintesi della riforma, a partire dai decreti già approvati dal governo, si capisce molto bene perché Renzi ai più ricordi la Thatcher. Il nuovo meccanismo che sostituisce il diritto al reintegro in caso di licenziamento giudicato illegittimo, stabilisce che al lavoratore licenziato senza giusta causa spettino due mensilità l’anno di indennizzo con un minimo di quattro mensilità. Come detto, il principio, che è valido solo per chi sarà assunto con il nuovo contratto, è applicato anche ai licenziamenti giudicati illegittimi perché in realtà collettivi, e cioè se un’azienda invece di aprire le procedura per la mobilità, licenzi più di cinque lavoratori in 120 giorni. Ci sono gli incentivi per le assunzioni, è vero, ma il rischio – ha denunciato la Uil – è che a un certo punto possa convenire assumere e licenziare giusto al termine degli sgravi.

Matteo Renzi ha approvato la riforma del lavoro in meno di un anno. Questo non gli impedisce però di cavalcare un altro cavallo tipicamente berlusconiano, il fastidio per il parlamento. Quando Berlusconi andò ospite da Michele Santoro, in una delle sue ultime apparizioni da nemico pubblico numero uno, ero nelle prime file, tra il pubblico. Anche lì Berlusconi, prima della messa in onda, tentando di ingraziarsi il pubblico, sfoderò la sua più classica delle scuse: «Sapete quanto ci vuole in Italia per approvare una legge? È per quello che governare è impossibile». Per Renzi, come per Berlusconi, ogni giorno è buono per lamentarsi delle lungaggini parlamentari.

Ecco allora le riforme costituzionali

L’abolizione del Senato che non è un’abolizione, ma che trasforma la camera alta del parlamento in un’assise di eletti di secondo livello, consiglieri regionali in gita. Forse esagera Barbara Spinelli, a evocare il piano di Licio Gelli e la P2. Forse, però. «L’efficienza e la rapidità delle decisioni economiche prevalgono su processi democratici ritenuti troppo lenti e incompetenti» dice l’eurodeputata dell’Altraeuropa, «gli effetti di questa decostituzionalizzazione li tocchiamo con mano in Italia. Il Piano di rinascita democratica di Gelli è stato fatto da Craxi, poi da Berlusconi, infine da Matteo Renzi». Bene: perché non convochiamo allora un girotondo? D’altronde siamo ancora lì, alla gestione autoritaria del potere. Lo dice proprio lo storico Paul Ginsborg, con Francesco Pardi protagonista di quella stagione: «Abbiamo vissuto con Berlusconi una spinta autoritaria. Renzi resta in quella stessa tradizione». Una tradizione di promesse e sogni. «Di decisionismo contro rappresentanza». Come nota Lorenza Carlassare, costituzionalista di Padova.

Carlassare si sofferma sulla legge elettorale

Quella figlia del patto del Nazareno, della storica visita di Berlusconi nella sede del Pd. Secondo la costituzionalista, la legge truffa del 1953 «era molto più democratica dell’Italicum perché il premio di maggioranza si otteneva avendo almeno il 50 per cento. Se non si raggiungeva questa soglia, non scattava». «Questo Italicum» continua la professoressa, «è più legato alla legge Acerbo del 1923», quella che assegnava due terzi dei seggi con il solo 25 per cento dei consensi. E l’aver abbassato le soglie di sbarramento, non può funzionare da contropartita: «Perché è vero», conclude la costituzionalista, «che la soglia di sbarramento è stata abbassata, ma il pluralismo è comunque impedito visto il premio di maggioranza». Soprattutto considerando la passione (e qui Renzi ha superato tutti, anche Berlusconi per i voti di fiducia: 31 in un solo anno).

Mentre aspettiamo che la Corte costituzionale si pronunci su questo nuovo porcellum, possiamo fare il punto di come dovrebbe funzionare. La legge, dopo innumerevoli cambiamenti, ha il doppio turno. Il ballottaggio tra i primi due si convoca se nessun partito riesce a conquistare il premio di maggioranza, che scatta con il 40 per cento dei voti, e assicura il 55 per cento dei seggi: 340 su 618. Nei 100 collegi, i partiti si presenteranno con un capolista bloccato e poi una breve lista composta da tre a sei nomi. Le preferenze si potranno quindi esprimere, per questi, ma le opposizioni hanno più volte e inutilmente fatto notare che quasi esclusivamente il partito che prenderà il premio di maggioranza, eleggerà qualche altro deputato oltre ai capolista bloccati. Come nel Porcellum ci sono poi le candidature multiple. Un candidato potrà essere capolista contemporaneamente fino in dieci circoscrizioni: elezione assicurata e libero arbitrio nel decidere chi far scattare al tuo posto. Effettivamente, la soglia di sbarramento è più bassa di quanto inizialmente proposto: era all’otto per cento, perché il fastidio che Renzi prova per i piccoli partiti è forse anche maggiore di quello da sempre dichiarato da Berlusconi. Sarà al tre.

Punti di contatto ci sono anche sulla scuola pubblica

L’unica riforma su cui Renzi ha prima annunciato corse senza sosta, e poi si è limitato a un disegno di legge, riscoprendo la centralità del parlamento, per coprire la carenza di fondi e l’impossibilità di procedere rapidamente alle 150.000 assunzioni promesse. I soliti sindacati sostengono che Renzi mutui molte parole dai bei tempi della riforma Gelmini. Ricordate le tre “i” berlusconiane? La prima era inglese, e Renzi vorrebbe alcune materie insegnate direttamente in inglese, la seconda impresa, e Renzi vuole l’apprendistato anche per gli studenti delle superiori, la terza informatica, e per mesi Renzi è andato in giro dicendo che bisognava aggiungere un insegnamento: il coding. Potremmo notare che lo stesso ex ministro Maria Stella Gelmini ha salutato con una certa eccitazione le intenzioni dichiarate da Renzi con la Buona scuola. «Alla fine il tempo ci ha dato ragione » diceva a settembre, «dopo anni di battaglie per risollevare un sistema educativo intorbidito dalla coda del ’68, ora anche la sinistra finalmente ha dovuto dare atto ai governi Berlusconi di aver agito nella direzione giusta per riportare la scuola italiana ai fasti che merita. Parole quali merito, carriera dei docenti, valutazione, premialità, raccordo scuole-impresa, modifica degli organi collegiali della scuola, sono state portate alla ribalta dal centrodestra, seppur subendo le censure e le aspre critiche da parte di sinistra e sindacati».

Vogliamo parlare dello Sblocca Italia?

Sicuri non vi ricordi la Legge obiettivo di Berlusconi? Cosa c’è di nuovo nel puntare ancora sulle grandi opere, che sostengono un’industria tecnologicamente “matura”, con scarso tasso di innovazione e alto tasso di corruzione, e concentrano gli introiti nelle mani di pochi big player (quindi a parte gli spiccioli per gli operai, niente ricchezza diffusa)? Cosa c’è di nuovo nel ricorso ai commissariamenti, che consentono di aggirare le procedure di impatto ambientale? Cosa c’è di nuovo nell’inserire «la non responsabilità penale e amministrativa per il commissario» nel decreto sull’Ilva? Salvatore Settis nel libro collettivo Rottama Italia, si sofferma sull’articolo 6 dello Sblocca-Italia che «cancella del tutto l’autorizzazione paesaggistica prescritta dal Codice dei Beni Culturali per ogni posa di cavi (sottoterra o aerei) per telecomunicazioni ». «L’articolo 25 invece» continua l’archeologo, «“semplifica”, cioè di fatto rimuove, ogni autorizzazione per “interventi minori privi di rilevanza paesaggistica”, governati ormai dal silenzio-assenso. L’articolo 17, poi, è un inno alla “semplificazione edilizia”, di stampo paleo-berlusconiano: scompare la “denuncia di inizio attività”, sostituita da una “dichiarazione certificata”, di fatto un’autocertificazione insindacabile; e si inventa un “permesso di costruire convenzionato”, che affida al negoziato fra costruttore e Comune l’intero processo, dalla cessione di aree di proprietà pubblica alle opere di urbanizzazione, peraltro eseguibili per “stralci”, cioè di fatto opzionali». È così, a un certo punto l’antipatia un po’ futurista di Matteo Renzi per i professoroni si è trasformata in un’antipatia per le soprintendenze che – è parola di premier – «incatenano» il Paese. Settis analizza poi «il trionfo dei “diritti edificatori generati dalla perequazione urbanistica” e delle “quote di edificabilità” commerciabili, che Lupi persegue da anni». Lupi Maurizio, il ministro che fate finta di non vedere.

È la responsabilità civile dei giudici il successo postumo più significativo di Silvio Berlusconi

«Se sbagliano, è giusto che paghino » diceva ad ogni comizio l’ex cavaliere. Quando Montecitorio approva definitivamente la legge, Renzi twitta: «Anni di rinvii e polemiche, ma oggi la responsabilità civile dei magistrati è legge!». Punto esclamativo. Rimettendo mano alla legge Vassalli del 1988, la nuova legge amplia la possibilità per il cittadino di fare ricorso, innalza la soglia economica di rivalsa del danno, fino alla metà stipendio del magistrato; elimina soprattutto il filtro di ammissibilità dei ricorsi. La responsabilità scatta in caso di negligenza grave e travisamento del fatto e delle prove. «La giustizia sarà meno ingiusta e i cittadini saranno più tutelati», dice il ministro della Giustizia Andrea Orlando, uno che viene dalla sinistra Pd. Dall’Associazione nazionale magistrati replica Rodolfo Sabelli: «Non è stata ancora approvata una riforma sulla corruzione, sul falso in bilancio, ma ci si precipita a votare una legge contro i magistrati che combattono la corruzione», accusa, spiegando poi che così, «si intacca il profilo dell’indipendenza dei magistrati. Vi è un rischio di azioni strumentali dando la possibilità alla parte processuale più forte economicamente di liberarsi di un giudice scomodo. È una strada pericolosa verso una giustizia di classe».

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/lucasappino” target=”on” ][/social_link] @lucasappino

Sono nato a Roma, il 23 febbraio 1988. Vorrei vivere in Umbria, ma temo dovrò attendere la pensione. Nell'attesa mi sposto in bicicletta e indosso prevalentemente cravatte cucite da me. Per lavoro scrivo, soprattutto di politica (all'inizio inizio per il Riformista e gli Altri, poi per Pubblico, infine per l'Espresso e per Left) e quando capita di cultura. Ho anche fatto un po' di radio e di televisione. Per Castelvecchi ho scritto un libro, con il collega Matteo Marchetti, su Enrico Letta, lo zio Gianni e le larghe intese (anzi, "Le potenti intese", come avevamo azzardato nel titolo): per questo lavoro non siamo mai stati pagati, nonostante il contratto dicesse il contrario.