Classico e sperimentale. Tra ironia e intimismo, il cantautore Giovanni Truppi racconta il suo terzo album, che prende il titolo dal suo nome.

Sul citofono nessuna indicazione e Giovanni Truppi non rispondeva al telefono. Poi ha aperto. Giovanni è un artista trentenne. Le sue canzoni verbalizzano quanto viviamo e spesso evitiamo di raccontarci. Il modo in cui lo fa è semplice, mai retorico, ma le parole che sceglie sono così personali (anche per chiunque le ascolti) che piovono addosso come pietre. Definirei la prima sensazione che si prova ad ascoltarle come un sano masochismo perché toccano lo strato più interno della pelle e danno il piacere della condivisione. L’emozione di sentire che quelle che credi essere le tue personali riflessioni inconfessabili sono le stesse di un altro. Un cantautorato classico e sperimentale allo stesso tempo, che a tratti stride, a tratti accarezza. Le due ore, trascorse insieme nel suo studio, prendono la forma di un dialogo in libertà. «Sono nato a Napoli e ci ho vissuto fino all’età di 23 anni», dice quando gli chiediamo di autopresentarsi. «Da dieci anni vivo a Roma, a Centocelle. Ho iniziato a studiare pianoforte a sette anni, poi, in adolescenza, ho cominciato a suonare la chitarra e a scrivere canzoni».

Nel 2010 pubblica il suo primo disco, C’è un me dentro di me, nel 2013 arriva il suo secondo lavoro, Il mondo è come te lo metti in testa, e, il 23 gennaio, è uscito Giovanni Truppi. Un album in collaborazione con il batterista Marco Buccelli, che è anche il produttore dei suoi ultimi due dischi.

Nel ritornello del primo brano dice: «Stai andando bene Giovanni, continua a fare male»…

Mi è capitato spesso di riflettere sul fatto che per alcune persone, per esempio per me, è difficile fare male. Nel senso di accettare anche una parte brutta, violenta, scomoda, fastidiosa di se stessi e di tutto quello che ci circonda, delle altre persone.

In altre parole è come dirsi: “Non sei perfetto ma accettati”.

Sì, è un po’ una paraculata, però, sì.

Farà anche male, ma ha tracciato un percorso.

In adolescenza, a un certo punto, ho realizzato che scrivere canzoni era la cosa più bella che potessi fare. Da lì ho cercato, a mio modo, con le mie incertezze, di farne la mia occupazione. A 14 anni ho scritto il mio primo pezzo. Era una cosa terribile, con la rima baciata. Descriveva una figura femminile, era proprio brutto.

Cosa c’è, invece, nel nuovo disco?

C’è roba intima, che sia mia o che abbia a che fare con l’intimità in generale. Nei mesi in cui lo scrivevo pensavo molto alla storia, a come noi esseri umani ci comportiamo da sempre. C’è il rapporto con il trascendente, con il male e con la morte. “Il Pilota”, in particolare, è un pezzo che lavora sul rapporto con la morte ma non per forza in senso fisico. “Superman” è un pezzo sul sesso, sull’estasi e anche qui c’è il fatto di uscire dal corpo, uscire dalla mente, uscire da se stessi. Non lo so spiegare perché, è più facile scrivere le canzoni… però mi incuriosisce molto quanto noi possiamo uscire da noi stessi, rispetto a come ci percepiamo e rispetto a quello che percepiamo. Poi c’è “Lettera a Papa Francesco I”.

Cosa gli chiede?

Di sciogliere la Chiesa. Ho scritto questa canzone con Antonio Moresco, è tratta da un suo libro che sia chiama Lettere a nessuno. Quando l’ho letto ho pensato che era una bellissima idea per una canzone. Ovviamente non c’è solo questo ma è una cosa nella quale mi riconosco molto proprio perché affronta certe questioni, che siamo abituati a vedere affrontate sulla piazza della politica, sul piano spirituale. Mi è sembrata una cosa molto giusta in questo momento storico.

Quanto lavori ai tuoi testi?

Molto. Ma lavoro anche sul far uscire una dimensione che sia istintiva. In realtà, questo disco è molto istintivo per la velocità con cui è stato scritto e arrangiato. Paradossalmente il mio disco precedente, che da ascoltatore percepirei come un disco più di pancia, è invece più ragionato.

Fragilità e relatività. Ne parli sempre.

La fragilità mi commuove, mi turba. E poi credo che mi interessino molto i rapporti, in generale, non solo tra le persone. Sulla relatività non ho una risposta perché è l’acqua in cui nuoto. Mi confronto tutti i giorni, umanamente, su quanto un evento possa essere diverso per me, per te, ora e tra mezz’ora. Sono cose che come uomo mi stanno a cuore e le ho portate nelle canzoni perché mi sembrava la cosa più interessante da fare.

La fine è un tema che ricorre nei suoi testi, ma senza essere apocalittico: i protagonisti delle storie la vivono, ci si confrontano, prendono le misure con il mistero delle cose.

Sono contento che tu non percepisca i miei pezzi come apocalittici. Spero che tra le cose con cui mi confronto nella vita e che in qualche modo racconto emerga anche la bellezza. Tendenzialmente nella vita cerco di stare bene e quindi provo ad avere un certo tipo di atteggiamento nei confronti del dolore, della morte.

Quindi non ha paura delle cose che finiscono?

Certo che sì. Più che altro provo sofferenza. Sono abbastanza pigro, quindi un cambiamento per me è uno stress. Ma so che è anche una cosa positiva e se non ci sono cambiamenti si muore davvero. Non lo voglio, ma lo voglio.

Quanto c’è di autobiografico in quello che scrive?

Le storie, gli argomenti di cui parlo e il modo in cui li affronto sono uno specchio di come li vivo.

Cosa vorrebbe che arrivasse alle persone di quello che fa?

La vitalità.

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