Il premier è riuscito ad andare oltre ai suoi peggiori predecessori: ha travestito d’umiltà il proprio protagonismo e lo porge tutti i giorni come dolcificante inimitabile e unico dell’amaro sciroppo della democrazia.

Eppure siamo quel Paese che con il neorealismo ha fatto dalle nostre viziate debolezze cinema e poesia, siamo il Paese che ha raccontato le armi, gli amori e gli eroi con la delicatezza di una letteratura che è stata maestra del cuore tenero senza smancerie, della povertà dignitosa ed etica. Noi siamo stati quel Paese lì, noi. Poi c’è stato il conato del berlusconismo e della televisione come bancarella di carne nuda al chilo, ci siamo perduti nel machismo necessario per primeggiare e ci siamo affezionati alla sbruffoneria esibita come privilegio.

Ricordo bene quando su, al nord, abbiamo cominciato a temere la solidarietà: ci dicevano fosse una debolezza da omosessuali e comunisti, ci hanno gridato nelle orecchie che essere solidali significava mettere a rischio la nostra sicurezza e quella dei nostri figli, che fosse sinonimo di smidollaggine ed è così che la volgarità leghista si è trasformata nell’unico credibile cane da guardia, nella maleducazione obbligatoria contro la barbara invasione. E mentre credevamo di difenderci dai barbari, alla fine siamo diventati barbari anche noi. Davvero. Sono stati in molti negli anni scorsi ad avvisarci che una volta finito Berlusconi avremmo dovuto disintossicarci dal berlusconismo: quella poltiglia di scampagnate sulle regole e tra le istituzioni con l’isteria sniffata di un aperitivo milanese, trasformare il Parlamento in una gabbia di cani fedeli con la lingua sul palmo del padrone, e vivere le debolezze e le fragilità come fastidiosi rallentamenti di un’epica cavalcata sociale verso un’Italia tutta sicumera e libertà, fronzoli e belle donne: la retorica del berlusconismo era la rottamazione degli indecisi, dei perdenti per natura, degli sfortunati e dei più deboli, significava rendere più forti i forti perché così sarebbe avanzato sicuramente anche qualcosa per tutti gli altri, un craxismo con meno remore.

E la sinistra? Hanno detto che aveva perso le parole, che diceva il giusto ma non riusciva ad essere capita, non era capace di essere “pop”. Dicevano. E poi è arrivato lui: Matteo Renzi, il rottamatore dei rottamatori, la terza repubblica dopo quella seconda che alla fine aveva finito per puzzare come la prima, Renzi il nuovo, il giovane, il mago della comunicazione orizzontale che sembra verticale, dove tutti hanno la sensazione di partecipare pur avendo solo la libertà di applaudire. Odia le puntualizzazioni, Matteo Renzi, crede di avere già in mano la migliore sintesi possibile e probabilmente anche per questo vive il Parlamento (come quell’altro) come tappa obbligatoria per licenziare decisioni già prese e non emendabili.

Matteo Renzi ha spento la dialettica (come quell’altro) nel modo più semplice possibile: o con lui o contro di lui, o sei un innovatore che vuole andarsi a prendere il futuro oppure sei solo un nemico, un attentatore al cambiamento, un gufo. Lo spirito degli scout vissuto con una curiosa e pericolosa deviazione: il Presidente favoleggia la meravigliosa solidarietà che (però) si applica solo ai suoi sodali e non a quegli altri e così la discussione politica diventa solo cronaca di iniziative o reazioni dei propri uomini e dei propri ambienti, il resto nulla, gli altri solo rumore di fondo. Ma Matteo Renzi è riuscito ad andare oltre ai suoi peggiori predecessori: ha travestito d’umiltà il proprio protagonismo e lo porge tutti i giorni come dolcificante inimitabile e unico dell’amaro sciroppo della democrazia. Berlusconi ci diceva che gli avversari erano dei coglioni e invece il Matteo nazionale sottolinea come i suoi avversari hanno comunque il privilegio di perdere contro uno come lui, che per buon cuore comunque alla fine penserà anche a loro, senza fare prigionieri.

C’è una foto di Renzi molto rappresentativa: arriva di notte a Montecitorio dopo una scazzottata tra alcuni deputati di Sel e i colleghi del Pd, ha la testa dritta e il mento in alto e affronta a muso duro le opposizioni, camicia bianca d’ordinanza e senza cravatta (il solito bullismo bisbigliato nei particolari) e ringhia: «Noi andiamo avanti, votiamo le riforme. E se non ce la facciamo, non c’è problema: tutti a casa e andiamo a votare. Tanto io ho con me le tv e l’elettorato e stravinco comunque. Così facciamo anche un po’ di pulizia». Qualcuno gli dà una bella pacca sulla spalla, dicono che a casa finalmente Renzi lo capiscono tutti, altro che il politichese della sinistra che perdeva, e poi dicono che non fa niente se ogni tanto Renzi mostra i muscoli con un bullismo lessicale da capoclasse strafottente, non è mica come Berlusconi questo, ci dicono, Renzi ha riformato il mondo del lavoro con l’accento emiliano dei compagni, e non importa che abbia esultato anche Sacconi, mette mano alla Costituzione ma lasciatelo stare,  «vuoi mettere con Silvio?» Mi dicono, «ma sei matto?». Quello era uno sbruffone invece questo, dicono, questo deve fare al massimo un po’ l’arrogante perché altrimenti non lo lasciano fare, non lo lasciano lavorare, non gli permettono di cambiare il Paese. Adesso la sinistra è “pop”, finalmente. Dicono. Era facile. Bastava non essere di sinistra.

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