«I love you». Con queste parole, ripetute come un’onda dall’human mic, Naomi Klein ha iniziato il suo intervento davanti a migliaia di persone a Zuccotti Park, a poche settimane dall’inizio dell’accampamento di Occupy Wall Street, il 17 settembre 2011. «We found each other» – ci siamo trovati – era questa la sensazione che respirava Naomi Klein in quello spazio che, a pochi metri dal centro della finanza globale, tentava di costruire un mondo altro e faceva vivere pratiche che il mainstream voleva impossibili.
Zuccotti Park – ribattezzata Liberty square dagli occupanti, recuperando il nome antico e precedente alle tracce di speculazione edilizia che hanno trasformato quello spazio pubblico in “spazio pubblico di proprietà privata” – era il luogo in cui centinaia di persone vivevano notte e giorno, insieme, condividendo spazi e servizi, provvedendo alle necessità gli uni degli altri, modificando l’immaginario di chi partecipava alla protesta e di chi vi assisteva. Non era una protesta come quelle a cui eravamo abituati, contro un obiettivo specifico, con rivendicazioni chiare e leader riconosciuti e riconoscibili. Occupy Wall Street è nato da un appello online partito dal Canada a metà di quell’anno incredibile che è stato il 2011, cominciato con la fuga di Ben Ali da Tunisi, dopo settimane di proteste nelle strade, e passato per le piazze occupate del Cairo e di Madrid.
Un nuovo modo di protestare è nato, e da quelle esperienze Adbuster ha preso ispirazione, a luglio, per invitare a scendere per le strade di Manhattan, e andare a piantare le tende là dove la crisi, che ancora oggi ci attanaglia, era nata: a Wall Street. Quella piazza occupata stava là a ricordare al mondo e ai suoi potenti che, per quanto fosse negato, era possibile immaginare alternative. «Avete rotto un tabù», disse il filosofo Slavoj Žižek intervenendo in quella piazza, «come nei cartoni animati quando il personaggio continua a correre finché non si accorge di avere il vuoto sotto, la vostra presenza qui sta dicendo ai potenti di Wall Street “Ehi! C’è il vuoto sotto di voi!”».
La prima, grande e irreversibile vittoria di Occupy Wall Street è stata quella di cambiare il dibattito pubblico statunitense, introducendo nel mainstream termini fino ad allora impossibili da pronunciare. Uno su tutti: disuguaglianza. Per mesi Occupy non si è limitato ad accamparsi a Zuccotti Park, ma ha occupato ogni dibattito sui media, aprendo uno squarcio che, dopo anni, non si è ancora del tutto chiuso se quel «99% contro l’1%» è entrato a far parte del gergo politico globale.
Dopo due mesi l’accampamento fu sgomberato nottetempo dalla polizia di New York, contribuendo in realtà a rafforzare il consenso nei confronti del movimento, ma indebolendone irreparabilmente la struttura. Senza un luogo fisico in cui far vivere le proprie idee – che non erano semplici rivendicazioni, ma pratiche quotidiane di alternativa possibile – privati di visibilità, Occupy Wall Street è scomparso dal nostro orizzonte e dal nostro immaginario, lasciandoci con la sensazione amara di un’occasione, l’ennesima, persa. L’assenza di rivendicazioni chiare è stata un freno alla trasformazione del movimento in opzione po litica e in partito, e ne ha minato le basi.
In realtà, l’impegno degli attivisti si è riversato in molteplici altre iniziative, spesso però meno visibili di un accampamento nel cuore di Manhattan. A ottobre 2012, forti della loro esperienza in mutual aid e costruzione di comunità, molti degli attivisti di Occupy sono stati in prima linea nel portare soccorso alle vittime dell’uragano Sandy, specialmente nelle zone più colpite e meno coperte dai soccorsi ufficiali. Nella fase post catastrofe sono stati promotori e animatori nella costruzione di cooperative che fornivano servizi e aiuto alle comunità colpite. Alcuni di loro sono oggi a Detroit, la metropoli della bancarotta, a organizzare i cittadini per rispondere ai bisogni della comunità, in primis quello dell’acqua che minaccia continuamente di essere tagliata perché nessuno è più in grado di fornirla.
Là dove occorre ricostruire senso di comunità, là dove l’autogestione diventa la sola risposta alle inefficienze di un sistema che funziona solo sulla base del profitto, Occupy Wall Street riappare, ricompaiono le sue pratiche e i suoi protagonisti. Un movimento che ha insegnato a molti a fare politica, a coordinare gruppi di lavoro, a elaborare strategie. Un movimento senza leader che ha prodotto in realtà una leadership plurale, in cui la Rete era strumento, ma anche luogo di protesta, coordinamento e elaborazione e in cui coloro che gestivano i siti internet, gli account Twitter e le pagine Facebook erano inevitabilmente leader, anche se soft, come descrive molto bene nel suo Tweets and the streets il sociologo Paolo Gerbaudo.
E non è un caso che gli ultimi fuochi d’artificio pubblici, Occupy Wall Street li abbia regalati proprio in pubblico e su Twitter. A febbraio 2014 Justine Tunney, una delle prime attiviste coinvolte nel movimento a partire dal luglio 2011, ha preso possesso dell’account Twitter ufficiale – @OccupyWallSt che lei stessa aveva aperto – estromettendo tutti gli altri amministratori, dichiarandosi “fondatrice” del movimento, accusando David Graeber, un altro pilastro del movimento, di sabotaggio e, sostanzialmente, menando colpi a dritta e a manca contro tutti quelli che, secondo lei, non erano abbastanza in linea con la sua idea di Occupy Wall Street: un movimento profondamente anarchico e votato alla realizzazione di una rivoluzione armata che Tunney avrebbe voluto finanziare con un crowdfunding.
Ancora Slavoj Žižek, intervenendo a Zuccotti Park, aveva ammonito: «Non innamoratevi di voi stessi». Ma pare che il pericolo più grande fosse non innamorarsi abbastanza, almeno gli uni degli altri.
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