Senza tutela sanitaria e con trattamenti economici iniqui, i traduttori si auto organizzano. Storia di Strade, il sindacato indipendente che difende i diritti del lavoro intellettuale.

«Se tutto questo esiste, un po’ è anche merito nostro!». Daniele A. Gewurz sorride e indica gli scaffali pieni di volumi della libreria Feltrinelli a largo Argentina, nel cuore di Roma. Una laurea e un dottorato in matematica alle spalle, Daniele ormai è un traduttore a tempo pieno. Ma è anche un “sindacalista”, perché insieme ad altri colleghi ha fondato l’associazione Strade (Sindacato traduttori editoriali).

Centinaia di autori da “una cartella all’ora”, giovani appena usciti dai corsi di laurea e ultrasessantenni che traducono da una vita. I traduttori sono per eccellenza una categoria di “invisibili”. Lo sono di fatto, quando i critici letterari si dimenticano di citarli nelle recensioni o quando gli editori non pubblicano il loro nome sulla copertina o sul frontespizio del libro che hanno tradotto, in barba alla legge sul diritto d’autore. Ma sono soprattutto invisibili nel rapporto con il datore di lavoro. «Non esistono compensi minimi, e per i contratti – tutti individuali -, siamo alla mercé della controparte. In assenza di un tariffario ufficiale, dipendiamo dalla disponibilità o meno dell’editore. La legge sui diritti d’autore, che è ancora quella del 1941, non dice nulla a proposito. E può accadere che un principiante o uno che ha seri problemi di sopravvivenza accetti anche condizioni inique», dice Gewurz, strngendosi nelle spalle. Nessuna tutela poi in caso di malattia, niente assegno di gravidanza e naturalmente nessuna forma di previdenza, che non sia a proprie spese. Ma da quando esiste Strade qualcosa è cambiato. «Da solo fai poco ma se sei insieme ad altri con interessi simili ottieni molto di più», osserva lo studioso di matematica combinatoria. Per la prima volta una categoria di lavoratori isolati e per questo più facilmente sfruttati, si è cimentata in un’azione collettiva. «Eravamo dentro il Sindacato nazionale scrittori, sezione traduttori. Ma non avevamo alcuna voce in capitolo, non c’era dialogo. Così abbiamo deciso di uscire, in blocco», racconta Daniele. Se ne andarono in 166, oggi a Strade sono iscritti 255 traduttori. Allora non fu proprio un salto nel buio perché l’associazione trovò un sostegno tecnico nella Slc Cgil, che tra l’altro, continua tuttora nella delicata trattativa sul contratto nazionale del settore grafico-editoriale.

La prima conquista di Strade è la mutua sanitaria. I traduttori, stanchi di non avere diritto ad alcuna tutela, nel 2011 avevano cominciato a sondare il mondo delle assicurazioni sanitarie private e le società di mutuo soccorso. Alla fine viene stretto un accordo con Insieme Salute, società di mutuo soccorso di Milano. «Abbiamo cercato di mettere in piedi una mutua che puntasse sulla copertura del reddito nei periodi di malattia, di ricovero in ospedale e anche quando non si può lavorare perché dobbiamo assistere il coniuge, i figli o i genitori», racconta Fabio Galimberti che insieme a Elena Doria è l’artefice del “patto” sanitario di Strade. Con 246 euro all’anno si ha diritto a una diaria, a un assegno di gravidanza e a convezioni con strutture private. La mutua è stata estesa anche ad altre associazioni indipendenti, come il Sindacato scrittori, Acta e Aiti (traduttori tecnici e interpreti). Non è un caso poi che la mutua di Strade sia stata dedicata a Elisabetta Sandri, una collega scomparsa prematuramente «dopo aver lottato con coraggio non solo contro la sua malattia, ma anche contro un sistema iniquo che impediva a lei, lavoratrice autonoma, di godere degli stessi diritti riconosciuti ad altre categorie di lavoratori», ricordano i colleghi nel sito.

«Il passaggio davvero rivoluzionario sarà quando l’assistenza sanitaria integrativa sarà estesa per contratto anche alle figure non subordinate, come noi, appunto», sottolinea Fabio Galimberti. Il welfare contrattuale per chi non è dipendente è uno dei punti della trattativa del nuovo Ccln che dovrebbe essere rinnovato alla fine dell’anno. «È già stata raggiunta un’intesa di massima con la controparte, cioè anche l’editore, oltre al lavoratore contribuirebbe in parte versando una somma, ma rimane da verificare la modalità di questa copertura», aggiunge Francesco Sole, Slc Cgil. Il rischio è che l’imprenditore chieda in cambio qualcosa, magari di decurtare la già sottile parcella. E infatti un altro punto chiave della vertenza che interessa anche i traduttori è il raggiungimento di trattamenti economici minimi «per tutta la filiera editoriale», specifica il sindacalista Cgil. «Non devono esserci più casi di ingiustizia, occorrono regole chiare – ribadisce Gewurz -. In mancanza di contratti collettivi invece accade di tutto: pagamento a 60 giorni o addirittura al momento della pubblicazione, in questo caso il contratto va rispedito al mittente, perché, e se il libro non viene stampato, che si fa?». E poi ci sono le royalties. I traduttori, per legge, avrebbero diritto a una percentuale sui ricavi delle vendite dei libri tradotti. Ma nessuno se lo ricorda. Un’eccezione però c’è stata, anche se è un gesto privato: Daniel Pennac ha girato una parte dei diritti d’autore in Italia alla sua traduttrice Yasmina Melaouah.

Altrove, come nei Paesi nordici, dove si traduce molto e lo Stato finanzia addirittura le traduzioni, la categoria è forte e combattiva. Il sindacato norvegese è una sorta di “faro” per Gewurz e i suoi colleghi. E su uno sciopero bianco della categoria circola addirittura una leggenda metropolitana che vede tra i protagonisti il traduttore di Camilleri e di Saviano. Di fronte a un intoppo nelle trattative sindacali, poiché nel contratto si faceva ancora riferimento al dattiloscritto da consegnare, cosa hanno fatto gli agguerriti traduttori norvegesi? Si sono presentati a centinaia, portando la traduzione e rispettando alla lettera il contratto. Solo che erano pacchi di centinaia e centinaia di fogli di carta. «Ecco il libro, e ora ve lo ribattete!».