Ci sono tanti tipi di uomini: secondo Leonardo Sciascia nel “giorno della civetta” la scala delle differenze comincia dai veri uomini e finisce coi quaquaraquà. E ci sono tanti tipi di leggi: le vere e le quaquaraquà. Le prime servono a risolvere un problema della società, le altre sono occasioni in cui lo Stato, come diceva il Don Giovanni di Mozart a Zerlina, esibisce la sua protezione – una protezione verbale, vuota di contenuto. Ne conosciamo tante. Si pensi a quella recente sul reato di negazionismo, puro fumo negli occhi, buona solo per stimolare il protagonismo di qualche finto martire della libertà intellettuale e per creare oggi imbarazzi al governo col caso del genocidio armeno.
Sicuramente inutile anzi profondamente sbagliata è la legge che sta introducendo il reato di tortura nell’ordinamento italiano. Era nata come un disegno di legge d’iniziativa parlamentare proposta dal senatore Luigi Manconi, da sempre in lotta contro le sopraffazioni del potere. Se ne sentiva l’urgenza da tempo: l’impunità di torturatori annidati nei gangli vitali delle cosiddette forze dell’ordine era stata una realtà strisciante negli anni di piombo. Un libro bianco del 1982 ne raccolse una casistica. Era emersa con prepotenza nelle cronache terribili dei fatti del G8 di Genova del 2001. E aveva continuato a tornare d’attualità nel lungo stillicidio di casi di persone morte nelle mani di vigili e poliziotti, da Stefano Cucchi a Federico Aldrovandi a Giuseppe Uva a Riccardo Magherini e altri ancora. Ogni volta i responsabili restarono impuniti perché il resto di tortura non era previsto nell’ordinamento italiano. Inutilmente si chiedeva che la lacuna venisse colmata, l’Italia continuava a figurare nell’elenco nero degli stati canaglia.
Ora, la tortura altro non è che l’esercizio del potere dello Stato. Fin dalle lontane origini fissate nel diritto romano è lo Stato l’ente in nome del quale si processa e si tortura. E la realtà odierna è sempre quella: lo dicono sul piano internazionale nomi come Abu Graib e Guantanamo, lo dice lo strisciante ritorno di una legittimazione della tortura nella lotta contro il Terrore. Di fatto e di diritto, il potere statale nella cultura e nella pratica del mondo occidentale si misura dalla sua capacità di esercitare il monopolio della violenza, regolando il ricorso alla forza con le sue leggi. E da secoli contro l’arbitrio del potere – quello della Chiesa e quello degli stati – la cultura occidentale ha condotto battaglie durissime.
Ma ecco che oggi, se si va a leggere il disegno di legge sulla tortura approvata con modifiche alla Camera la settimana scorsa sulla spinta della solenne bocciatura della Corte europea dei diritti dell’uomo, si scopre che nel disegno di legge italiano il reato di tortura è un “reato comune”, non un delitto del potere. Si colpisce «chiunque… intenzionalmente cagiona ad una persona a lui affidata… acute sofferenze fisiche o psichiche»: chiunque, cioè nessuno. Forse è meglio di niente, ha scritto il senatore Manconi, peraltro molto deluso per quello che hanno fatto del suo disegno di legge. Ma forse è peggio: la vergogna di quel vuoto legislativo era almeno una ferita aperta, sfidava le coscienze. Che ora si addormenteranno. E non chiederanno nemmeno la misura minima ma indispensabile dell’identificabilità dei membri delle forze di Polizia impegnate in funzioni di ordine pubblico, oggi coperti dall’anonimato e dalla solidarietà di corpo.