Questa l’opinione del critico televisivo Aldo Grasso a commento dei molti giovani che avrebbero rifiutato un lavoro – stando a quanto uscito in un articolo del Corriere della Sera – tutto sommato ben pagato. 1.300-1.500 euro per uno stage di sei mesi. Narravano.
Peccato che le cose non siano andate proprio così, come hanno poi denunciato i giovani chiamati in causa, ovvero il 46 per cento di quei seicento selezionati con dubbie procedure da Expo. Ci piacerebbe che il giornalismo fosse verifica, ma quand’anche si pensasse che sia la propria opinione ad assurgere al valore di notizia di interesse pubblico, ci piacerebbe che un giornalista verificasse quantomeno i fatti su cui la fonda.
E tanto per dare un esempio di opinioni di valore, opinioni che raccontano realtà e non visioni sprezzanti del tutto avulse da essa, pubblichiamo la risposta di una giovane giornalista precaria, Selene Ciluffo:
Aldo Grasso, grazie per il suo editoriale
Egregio professor Aldo Grasso,
Mi chiamo Selene, ho 28 anni e da circa 8 lavoro come redattrice, tra poco prenderò il tesserino da pubblicista. Ho iniziato a fare questo mestiere mentre ancora facevo l’università e senza essere pagata. Quindi, per necessità, ho fatto anche altri lavori: baby sitter, cameriera, davo ripetizioni private ai bambini.
Ho visto il suo editoriale in cui afferma che “i giovani non sono abituati al lavoro e presto dovranno farlo”. Non mi permetto di definirmi una professionista al suo livello, dopo tutto faccio questo lavoro (nel senso che vengo pagata per la mia prestazione professionale e ho rinunciato alla mia carriera da baby sitter e cameriera) solo da circa tre anni. Ma le faccio presente che nel suo stesso ambito siamo tantissimi i giovani in questa condizione. Inoltre quella viviamo noi piccoli suoi colleghi non è una condizione solo del lavoro editoriale: non ho un amico della mia età che non abbia un contratto precario, il cui lavoro può non essere riconosciuto come tale perché effettivamente non ha ferie, non ha malattia, non ha tutele sindacali. Avvocati, infermieri, farmacisti, professori, impiegati, per non parlare di chi lavora nel sociale, nei call center, nei supermercati con le aperture domenicali, nei magazzini.
Ha ragione: non siamo abituati al lavoro, perché la mia generazione è precaria e il precariato non è esattamente lavoro, lo definirei meglio come sfruttamento legalizzato. L’altro giorno ho proprio sentito quello che diceva lei nel suo editoriale in un bar: lo balbettava un uomo della sua generazione al bancone. Sentendolo al bar avevo pensato che fosse un “luogo comune”, per eccellenza l’esempio più lampante di del pressapocchismo. Ma visto il suo editoriale, dovrò ricredermi, sarà sicuramente una splendida conclusione a cui è arrivato dopo un’attenta verifica. Comunque stia tranquillo, perché a questo sfruttamento legalizzato ci stiamo già abituando. Ci scusi se ogni tanto pensiamo che sia sbagliato e magari scendiamo anche in piazza. Ma gli sfaticati questo fanno no? Si lamentano e parlano per luoghi comuni.