A Renzi piacciono le prove di forza e infatti ha messo la fiducia sulla riforma elettorale, twittando ridondante: «La Camera ha il diritto di mandarmi a casa, se vuole. La fiducia serve a questo». E pazienza che lo stesso premier, quando non era premier, nel gennaio del 2014, dicesse che «fare la legge elettorale a colpi di maggioranza è uno stile che abbiamo sempre contestato».
A Matteo Renzi piacciono le prove di forza. E questa è cosa nota. Altrimenti non avrebbe mai messo la fiducia sulla riforma elettorale, un’ora dopo aver incassato – registrando solo 12 defezioni nell’intera maggioranza di governo – il no alle questioni pregiudiziali poste in aula alla Camera dalle opposizioni: Sel, 5 stelle, Lega e Forza Italia.
 
Anche la minoranza bersaniana ha votato con il governo (e Alfredo D’Attorre aveva subito detto: «Abbiamo dimostrato che la fiducia si può evitare»), ma a Renzi piacciono le prove di forza e infatti ha messo la fiducia sulla riforma elettorale, twittando ridondante: «La Camera ha il diritto di mandarmi a casa, se vuole. La fiducia serve a questo». E pazienza che lo stesso premier, quando non era premier, nel gennaio del 2014, dicesse che «fare la legge elettorale a colpi di maggioranza è uno stile che abbiamo sempre contestato». Lo stile non era il suo, e quindi non vale.
 
Le opposizioni protestano (Renato Brunetta grida al «fascismo renziano». I grillini se la prendono soprattutto con Laura Boldrini, colpevole di applicare il regolamento che riconosce al governo la possibilità di porre la fiducia anche sulla riforma elettorale). Ma i supporter apprezzano la risolutezza del leader: «Chi critica la scelta di porre la fiducia» dice ad esempio il senatore Giorgio Tonini, «dovrebbe rileggersi cosa diceva in proposito Aldo Moro alla Camera durante la seduta del 18 gennaio 1953». Già. Perché la fiducia su una legge elettorale è stata messa già due volte nella storia della Repubblica. Nel 1923 per l’approvazione della legge Acerbo che, consacrò l’ascesa al potere del partito nazionale fascista, e nel 1953, quando appunto la Dc fece approvare la cosiddetta ‘legge truffa’.
 
E se il passaggio parlamentare non dovrebbe riservare particolari sorprese, è cosa succederà subito dopo l’approvazione dell’Italicum che potrebbe consegnare definitivamente il Pd nelle mani di Matteo Renzi, e però aprire anche la stagione delle scissioni. Non è più un mistero alla Camera che Giuseppe Civati si immagina già seduto nel gruppo misto, in una componente ribattezzata «Italia Bene Comune», in onore dei tempi andati (era il nome dell’ultima coalizione di centrosinistra, guidata da Bersani, con Pd, Sel e socialisti).
Anche Stefano Fassina ormai dice che «la scelta di Renzi non può non avere conseguenze». Non ci sono conferme, né dichiarazioni ufficiali. Zero virgolettati. Ma possiamo darci appuntamento appena passata la battaglia parlamentare. Una, due settimane al massimo. «È un passaggio drammatico, non solo per me» dice Civati: «Se non vado via io, mi cacceranno loro. Ma preferisco andare via. Vediamo, aspettiamo qualche giorno». «La fiducia sull’Italicum», intanto, «non la voto». Ma non è la prima volta.
[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/lucasappino” target=”on” ][/social_link] @lucasappino
Sono nato a Roma, il 23 febbraio 1988. Vorrei vivere in Umbria, ma temo dovrò attendere la pensione. Nell'attesa mi sposto in bicicletta e indosso prevalentemente cravatte cucite da me. Per lavoro scrivo, soprattutto di politica (all'inizio inizio per il Riformista e gli Altri, poi per Pubblico, infine per l'Espresso e per Left) e quando capita di cultura. Ho anche fatto un po' di radio e di televisione. Per Castelvecchi ho scritto un libro, con il collega Matteo Marchetti, su Enrico Letta, lo zio Gianni e le larghe intese (anzi, "Le potenti intese", come avevamo azzardato nel titolo): per questo lavoro non siamo mai stati pagati, nonostante il contratto dicesse il contrario.