Si può fare una bellissima e credibile campagna elettorale che non poggi solo ed unicamente sul leader del proprio partito/coalizione. Ce lo ha insegnato il Labour in questi mesi.
Ed Miliband non è e non sarà mai un personaggio da far rizzare i capelli, non è e non sarà mai Tony Blair (per fortuna?): modesta presenza scenica, zeppola, attitudine da “North London Geek”, come da molti è stato appellato con disprezzo. Eppure mentre attraversava il paese in lungo e in largo, in venue più o meno grandi, ingaggiando i suoi avversari nei pochi dibattiti tv – anche quello a cui secondo tutti gli strategist non avrebbe mai dovuto presentarsi, cioè il dibattito tra le minoranze -, fronteggiando il temibile Jeremy Paxman, a cui ha confermato di essere “tough enough”, e bussando alle porte di britannici disillusi e sull’orlo di una crisi di nervi, il modo in cui il “fratello sfigato” della famiglia Miliband è percepito dalla public opinion è sensibilmente cambiato.
Ora Ed non è più “debole”, ma “sensibile”. Non è più “noioso”, ma “credibile”. Non è più “goofy”, ma addirittura “charming”, soprattutto se lo andate a chiedere alle teenager impazzite sui social del #milifandom. Un gran lavoro: non sorprende ci sia la mano di David Axelrod, già campaign advisor del Presidente più cool dell’universo mondo (indovinate chi). I Tories hanno sin dall’inizio puntato tutto sulla presunta debolezza di Miliband, e questo non ha fatto che rinforzarlo: la magia dello spin.
Ma come dicevo all’inizio, il Labour ha mostrato che si può fare una bella campagna sopperendo ai limiti del proprio leader. Mostrandosi soprattutto una comunità, trovando appoggi esterni nella cosiddetta “società civile”, mandando avanti altri “senior Labour” come il brillante e -molto probabilmente – futuro leader Chuka Umunna, evitando contrasti interni, soprattutto in un periodo così delicato.
Numerosissimi sono stati i militanti accorsi da tutta Londra a dare una mano a Neil Coyle, e tante le persone che per la prima volta, sentendo il bisogno di fare qualcosa per la propria comunità, si sono affacciati alla doorstep di losche council estates con un invito a votare Labour “on may the 7th”. Uniche armi di persuasione: un sorriso, e la stessa presenza su quel ciglio di porta. Quest’ultimo, in particolare, è stato un mantra ripetutamente utilizzato dai candidati Labour: “Conservatives has big money, we have people”. Un continuo invito alla mobilitazione, come all’autofinanziamento, nelle ripetute ma mai urticanti newsletter inviate ai volontari.
Non si può negare che il governo della Coalition di David Cameron abbia riportato un sentore di stabilità e crescita nell’economia britannica. Tuttavia, ciò è stato fatto con costi sociali innegabili. Budget annuali draconiani, imposti dall’ala thatcheriana dei Tories, quella del Chancellor of the Exchequer, il nostro Ministro delle Finanze, George Osborne. Tagli lineari al welfare, privatizzazione selvaggia del National Health Sistem (Sistema Sanitario Nazionale), un focus esagerato sulla City finanziaria della Londra guidata da Boris Johnson. Ma soprattutto, e queste sono le scelte che più hanno colpito le fasce più deboli, oltre che il consenso dell’alleato Lib-Dem e vice-Premier Nick Clegg: le tasse universitarie aumentate del 50%, l’impazzare dei zero-hour contracts (che in sintesi funzionano così: ti chiamo la mattina per lavorare 10 ore quel giorno stesso, ma magari poi non ti chiamo più per una settimana), un mercato immobiliare che sta letteralmente cacciando via i meno benestanti dalle zone “gentrificate”. Le zone rurali si sentono sempre più escluse dalle politiche di Westminster, da qui il razzismo galoppante e la crescita di UKIP, e l’Unione stessa del Regno sembra in pericolo: lo Scottish National Party, forza progressista ma indipendentista della Scozia, vincerà tutti (o quasi) i seggi in cui si candiderà.
In questo contesto, il focus tematico del Labour non poteva che tornare a sinistra, dopo il decennio delle opportunità e della successiva Grande Crisi, e quindi sull’uguaglianza: “We believe that Britain succeeds when working people succeed”. Salvataggio del NHS, eliminazione degli zero-hour contracts, abbassamento delle fees universitarie, regolamentazione del mercato immobiliare, un’apertura più convinta all’Europa, l’investimento sulle skills di britannici ormai spesso surclassati da immigrati dall’alto livello professionale.
La carta che ha incredibilmente convinto Russell Brand, il comico anarchico, un po’ Beppe Grillo un po’ Daniele Luttazzi, a dare in questi ultimi giorni il suo appoggio a Miliband, è stata però la generale “disponibilità all’ascolto”, e le chiare posizioni contro i monopolisti del settore bancario e mediatico (vedi Murdoch, oggi inferocito a giudicare della copertina del Sun): c’è chi storce il naso per questo endorsement, io ne sono piacevolmente stupito. Perchè ciò che non è successo in Italia, ciò che ha congelato l’incredibile energia di cambiamento scaturita nell’inverno 2013, sta forse succedendo qui: un leader di sistema anche piuttosto posato ed istituzionale, Ed Miliband, che dichiarandosi disponibile, con la sua comunità – condizione imprescindibile: la comunità -, a un coerente ma radicale cambiamento del sistema, convince il paladino dell’anti-sistema. Cosa c’è di più politico, e romantico di questo?
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La cosa più stucchevole ma divertente: le previsioni. Credo i Tories vinceranno la maggioranza relativa di pochissimi seggi, ma non avranno lo spazio necessario per riproporre la Coalition per il probabile insuccesso dei Lib-Dem. La palla passerà al Labour: Miliband dovrà rimangiarsi la promessa, e fare un patto con Nicola Sturgeon degli indipendentisti scozzesi. Che almeno è progressista e anti-austerity.
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