«Votate la lista, ma non i nostri candidati, troppe ombre». Non è Renzi a dichiarare imbarazzo per il suo stesso partito, stavolta, ma Antonio Russo, capogruppo in Comune a Imperia. Fra i candidati alla carica di consigliere regionale, infatti, c’è Daniele Comandini, amico stretto di un giovane attivista pentastellato dal cognome scomodo, Carmine Mafodda.
Stando a quanto denunciato dalla Casa della Legalità, autorevole osservatorio antimafia della regione ligure, quella dei Mafodda sarebbe una vera e propria dinastia ’ndranghetista che avrebbe colonizzato la zona di Teggia. E a quanto pare, anche il meet-up locale, dice Russo, che in un’intervista al Secolo XIX lo ha ribattezzato con un eloquente “piglia tutto”.
«C’è un aspetto che dovrebbe far pensare i grillini – spiega il Presidente, Christian Abbondanza -: nella zona di Teggia alle elezioni politiche ed europee il Movimento ha preso in media dal 5 all’8 per cento di voti in più rispetto a tutto il resto della Provincia. Significa che la ‘ndrangheta lo sta usando», avverte.
Per i pentastellati, è un’onta che è difficile immaginare possa essere tollerata. E invece no: la candidata presidente, Alice Salvatore, si schiera dalla parte di Comandini e difende le presunte amicizie ’ndranghetiste del candidato con una frase molto infelice: «Anche Peppino Impastato era figlio di un mafioso». Si sa, i grillini non sono nuovi a scivoloni imbarazzanti. Ma questa volta, l’uscita da campagna elettorale della candidata, ben più preoccupata di perdere voti più che la stima delle persone («è tutta una manovra per farci perdere voti»), rischia di essere grave: «Paragonare la figura di Peppino Impastato a Carmine Mafodda, esponente di una famiglia di ‘ndrangheta, figlio di un esponente di spicco della cosca è gravissimo oltre che assolutamente errato. Un accostamento e un paragone che come Casa della Legalità riteniamo assolutamente intollerabile», attacca Abbondanza. «Mafodda mai si è distaccato da quella famiglia, mai ha ripudiato il padre e la famiglia, restandoci, invece, costantemente legato».
A stretto giro arrivano anche le parole di Giovanni Impastato, fratello di Peppino, impegnato in Puglia in un’iniziativa a lui dedicata. Raggiunto telefonicamente si è limitato a commentare che «la storia di Peppino è conosciuta da tutti, è una figura di rilievo internazionale che non può essere strumentalizzata da nessuno e in nessuna occasione, elettorale e non. Non abbiamo mai negato il carattere mafioso della nostra famiglia, ma Peppino ne ha preso le distanze fin da subito, ha lottato e ne ha pagato con la sua vita».
A nulla valgono le difese dell’accusato, né tantomeno il silenzio del consigliere regionale in corsa. Cosa dirà adesso Beppe Grillo, che proprio in Liguria aveva esaltato la candidata con particolare trasporto? Ha cacciato stimati candidati per molto meno, come successe in Emilia-Romagna con la corsa al secondo mandato del capogruppo Andrea Defranceschi (molto amato dal territorio proprio in virtù dei suoi cinque anni di battaglie, meno dai diarchi) a cui venne impedito di partecipare con un cambiamento di regole in corsa perché indagato in quanto capogruppo dalla Corte dei conti.
Non è la prima volta che le elezioni regionali creano scompiglio e disappunto all’interno del Movimento 5 Stelle, proprio a causa delle regole per la selezione dei candidati. Decise, sembrerebbe, di regione in regione con metodi diversi, quando non dall’alto con un atto di imperio.
In Liguria infatti, come in Veneto e nelle altre regioni di questa tornata, fra i requisiti di candidabilità, c’è sì non essere indagato per reati contro la pubblica amministrazione, ma per quanto riguarda il penale, l’unica clausola è una generica “condanna in via definitiva”. (Leggi qui). In sostanza, anche con una sentenza in primo grado per associazione mafiosa, o concorso esterno, sei eleggibile come rappresentate e portavoce nelle istituzioni del Movimento 5 Stelle.
Bel paradosso, vero?
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