In Turchia le trattative per la formazione del nuovo governo turco sono in corso. Per il presidente uscente, Recep Tayyip Erdogan, è stata sicuramente una sconfitta: non ha ottenuto i tanto agognati 2/3 dei seggi e non può quindi governare da solo.
Un’election day “bulgara” quella di ieri, con un’affluenza del 99,6%. Il partito di Erdogan, l’islamico Akp (Partito per la giustizia e lo sviluppo), ha per ora conquistato in Parlamento 258 seggi su 550 fermandosi al 41% dei consensi e perdendo così circa il 10% (quasi 70 seggi) rispetto alle precedenti politiche del 2011. Il maggior partito d’opposizione, il laico Chp (Partito popolare repubblicano), che si ispira al padre della Turchia moderna, Mustafa Kemal Ataturk, agli antipodi rispetto all’Akp, al momento ha 132 seggi col 25% dei voti. Segue l’Mhp (Partito del movimento nazionalista) con 81 seggi e il 16%, mentre il partito filo-curdo Hdp (Partito democratico dei popoli), nato solo nel 2014, raggiungendo un insperato 13% ne conquista 79. Gli altri non avendo superato la soglia di sbarramento fissata al 10%, la più alta al mondo, restano fuori.
I dati definitivi dovrebbero essere diffusi in nottata. A questo punto ad Erdogan non resta che formare un governo di coalizione coi nazionalisti dell’Mhp. Assieme potrebbero contare su 339 parlamentari, contro i 211 di un’alleanza tra partito popolare (Chp) e filo-curdi (Hdp). Anche se il leader dei nazionalisti, Devlet Bahceli, ha già chiuso la porta al presidente uscente: «Se l’Akp non sarà capace di allearsi con altri partiti, sia che si tratti dei socialdemocratici o dei curdi, bisognerà tenere elezioni anticipate». La legge elettorale turca concede 45 giorni di tempo per la formazione del nuovo governo, superati i quali vanno indette nuove elezioni. Per scongiurarle, estromettendo Erdogan, ininterrottamente al potere da 13 anni, l’unica strada sarebbe quindi un’alleanza tra i tre partiti d’opposizione, ritenuta al momento difficile, nonostante siano già in corso trattative in tal senso. Nel Kurdistan i festeggiamenti per questo risultato ritenuto storico sono andati avanti per tutta la notte e riprenderanno non appena verrà proclamato il risultato definitivo ufficiale.
Per la prima volta il partito filo-curdo correva da solo e non con candidati indipendenti ma con una lista unica, guidata dal loro nuovo leader, Selahattin Demirtas, definito a seconda di chi lo dice l’Obama o il Tzipras d’Oriente. «La democrazia e l’uguglianza sono sempre stati i nostri capisaldi e continueremo ad impegnarci per questo, mettendoci immediatamente al servizio di tutti quelli che ci hanno sostenuto, appoggiato e votato in tutta la Turchia», ci ha assicurato Dilek Ocalan, la nipote del leader del Pkk appena eletta in Parlamento tra le fila dell’Hdp. In queste politiche si è registrato il record di presenza femminile in Parlamento: tra i banchi del Meclis, la Grande Assemblea Nazionale di Ankara, ne siederanno 19 in più rispetto a quello uscente, in totale ben 96, un risultato al quale hanno contribuito soprattutto i curdi, i quali hanno sempre un doppio candidato uomo-donna con pari poteri.
Dai primi di maggio, i dirigenti dell’Hdp hanno però denunciato oltre 150 aggressioni ai danni dei loro militanti. Un’escalation partita con due pacchi bomba nelle sedi di Mersin e Adana e culminata venerdì con i quattro morti e centinaia di feriti nell’attentato di Diyarbakir. Per non parlare dell’estromissione da molti seggi, denunciata dalle organizzazioni internazionali e dei diritti umani, degli osservatori internazionali chiamati a vigilare sulla regolarità del voto. L’esito di queste elezioni è l’effetto della resistenza delle forze di autodifesa curde che hanno respinto nella città siriana di Kobane (ribattezzata la Stalingrado d’Oriente), il pesante assedio dello Stato Islamico durato quasi 4 mesi. Ma anche dei numerosi malcontenti.
Si va dalla crisi economica alla corruzione, passando per quello tutto interno all’Akp nato in seguito al tentativo di riforma in chiave presidenzialista dell’assetto governativo voluto da Erdogan, il quale mirava così ad accentrare tutto il potere su di sé. Tanto che l’opposizione denunciava apertamente il pericolo “dittatura islamica” e c’era chi ormai parlava apertamente del rischio guerra civile anche qui in Turchia, quattro anni dopo l’inizio di quella nella confinante Siria. Cui si aggiunge la repressione dei giovani che nel 2013 manifestarono nella città di Istanbul, contro la costruzione al posto di Gezi Park di un centro commerciale. Proteste spente nel sangue dalla polizia. Il bilancio fu pesantissimo: 9 morti e 8.163 feriti. Se questo voto, ritenuto il più importante della storia recente del Paese, è stato come molti credono un referendum su Erdogan, la Turchia gli ha detto no, iniziando a voltargli le spalle.
Foto: Maria Novella De Luca