Dopo il No dei greci al referendum si dimette il ministro delle Finanze Varoufakis. Sarà rimpiazzato da Euclid Tsakalotos, economista, cresciuto in Gran Bretagna, formatosi a Oxford e militante di Syriza della prima ora

“Porterò con fierezza il disprezzo dei creditori”. Atene, il giorno dopo: il ministro delle Finanze Yanus Varoufakis si è dimesso. Troppo ingombrante e visibile e forse non la persona più adatta a partecipare a trattative con figure politiche con il pelo sullo stomaco. La frase tra virgolette, dal post sul suo blog che annuncia le dimissioni, è paradigmatica: Varoufakis non è un politico, ma un economista e la gestione del potere, i suoi equilibri, la riservatezza durante le trattative, non sono il suo forte. Un grande pregio, ma forse un difetto in una fase delicata come quella che si apre oggi. Nel post in questione Varoufakis spiega: “Dopo il risultato del referendum mi è stato segnalato come alcuni tra i partner e creditori avrebbero preferito la mia assenza dagli incontri”, per questo avrebbe deciso di farsi da parte. Qualche pressione deve averla fatta anche Alexis Tsipras, che è un politico più avvezzo alle difficoltà dei tavoli negoziali e alla gestione di maggioranze e trattative.

Oggi, appunto, è il giorno delle telefonate e dell’attesa per le decisioni di Mario Draghi. Stamane Tsipras ha sentito Hollande e poi lo stesso presidente della BCE, che dovrà decidere in fretta su vari fronti: la prosecuzione del sostegno alle banche greche e l’eventuale necessità di intervenire in maniera pesante sul mercato dei titoli di Stato acquistando bond dei Paesi dell’eurozona più a rischio (Italia, Spagna, Portogallo). Saranno ore di trattative intense. Ed è molto presto per dire se dopo la vittoria del No nel referendum greco, l’Europa saprà tornare sulle sue scelte e ragionare su quello che Varoufakis ha più volte proposto: la ristrutturazione del debito e un piano Marshall per la Grecia che consenta di far ripartire l’economia. Qualcosa di simile a quanto fatto dalle casse federali americane durante il primo mandato di Obama, che in questo caso prenderebbe la forma di un intervento esterno: gli Usa sono un vero Stato federale, l’Europa no. Per adesso il panico non sembra essersi impadronito delle Borse, tutte in discesa, ma senza precipitare. Nemmeno l’euro è crollato nei confronti delle altre monete. La verità è che l’eurogruppo convocato per domani pomeriggio sarà un momento cruciale, l’altra data fondamentale è il 20 luglio, giorno in cui la Grecia dovrà restituire 3,5 miliardi alla BCE. I segnali non sono buoni: prima di sedersi al tavolo tutte le voci importanti del governo tedesco hanno chiuso le porte a cambiamenti sostanziali delle loro posizioni. Più problematici e preoccupati per la rigidità di Berlino sembrano il governo italiano e l’Eliseo. Il governo greco domani presenterà una nuova ipotesi di accordo.

La persona destinata a rimpiazzare Varoufakis sembra essere Euclid Tsakalotos, attuale capo delegazione nei negoziati con la troika. Anche lui professore di economia con un punto di vista considerato radicale dall’establishement europeo, Tsakalotos è considerato un buon mediatore. Tsakalotos ha negato più volte l’ipotesi di una moneta parallela greca ed è sempre stato molto critico con i piani di austerity imposti al suo Paese, ma ha anche spiegato con molta chiarezza che l’idea non è quella di uscire dall’euro: “Syriza non ha un mandato per portare la Grecia fuori dalla zona euro, né ha il mandato per applicare un’austerità impraticabile. Ciò di cui abbiamo bisogno è un accordo praticabile, un accordo che sarebbe un bene per l’Europa e la Grecia “. Il suo tono ragionevole è apprezzabile nella breve intervista rilasciata a Channel4 alla vigilia del referendum.

Il nuovo ministro non è una figura più moderata, dunque, ma qualcuno più adatta a negoziare dell’outsider Varoufakis – la verità è che nella maggior parte dei vertici era già Tsakalotos a parlare per la Grecia. Formatosi a Oxford e proveniente da una famigli dell’élite greca – nipote del generale Thrasyvoulos Tsakalotos, che guidò quello che l’economista ha definito “la parte sbagliata” durante la guerra civile – si trova a suo agio ai piani alti del potere e sa parlare la stessa lingua, usare gli stessi toni delle delegazioni che incontra.  Il suo ultimo libro, Crucible of Resistance, si occupa proprio di crisi greca, eurozona ed economia mondiale. Tornato in Grecia negli anni 90, l’economista si è iscritto a Synapsimos, la forza politica che ha dato vita assieme ad altre a Syriza. In questo senso è più vicino alla politica e meno battitore libero rispetto a Varoufakis. Nei mesi passati ha partecipato all’assemblea nazionale del Sinn Fein ed ha parlato delle vittorie del suo partito e di Podemos come di una svolta per gli equilibri politici europei.

 

Sia Varoufakis che Tsakalotos (e anche il ministro per l’Economia Giorgos Stathakis) si sono formati all’estero. Quella di Varoufakis è una bella parabola di economista e personaggio pubblico. Qui sotto il ritratto scritto da Nicolò Cavalli per Left nel febbraio 2015.

«Yanis viene da una famiglia resistenziale, il padre ha fatto anni di prigione», spiega Joseph Alevi, suo amico e co-autore. Nel 1978 la dittatura dei colonnelli era ormai terminata ma la democrazia fragile, il clima ancora pesante e il movimento studentesco, in cui Varoufakis era coinvolto, esposto a rappresaglie militari e paramilitari. Così la famiglia decise di spedirlo lontano, Yanis Varoufakis.

Il ministro delle finanze del governo Tsipras, che si aggira per l’Europa come un fantasma d’altri tempi, ha lasciato Atene a 17 anni. La sua è una lunga peregrinazione tra Gran Bretagna, Australia e Stati Uniti. Poi il ritorno in Grecia. La crisi, quel maggio del 2012, piazza Syntagma che esplode di rabbia per la prima festa del lavoro sotto il tallone del memorandum imposto dalla troika. Soldi in cambio di tagli indiscriminati, tasse, licenziamenti. Una ricetta fallimentare. Il 6 maggio le urne testimoniano l’inizio dello smottamento delle coalizioni di governo. Uno smottamento che avrebbe portato, nel giro di due anni e mezzo, l’economista che aveva messo l’oceano tra sé e il suo Paese a provare la sfida impossibile. Ultima tappa di un viaggio, cominciato così, dal cuore del Mediterraneo alle pianure nebbiose dell’Essex, sud-est Inghilterra.

«Quando si è trasferito Yanis era già formato politicamente», sostiene Alevi. Era un giovane greco che ha iniziato a leggere Marx a undici anni nelle roccaforti del tatcherismo. Esito scontato: la piazza. «Maggie, Maggie, Maggie, Out, Out, Out!», racconta di aver urlato infinite volte nelle proteste contro le politiche neoliberali di Lady Iron. «Arrivai presto alla conclusione che la scienza economica è la lingua franca del discorso politico e mi immatricolai a Eco- nomia. Dopo poche settimane mi resi conto che quello che studiavo era solo un insieme di modelli matematici semplicistici. Ancora peggio: la matematica utilizzata era di terza mano e, conseguentemente, il pensiero economico che ne veniva fuori era atroce». Così Varoufakis decide di spostarsi verso la matematica pura, tornando all’economia solo quattro anni dopo – prima da dottorando e poi da docente all’Università dell’Essex. «Il mio addio alla Gran Bretagna avvenne nel 1987. Iniziai a pianificare la fuga nella notte della terza elezione della Thatcher. Era troppo per me», racconta. L’Università di Sidney lo invita per una lezione. Rimarrà dall’altra parte del mondo per 12 anni, fino a prendere la nazionalità. A Sidney, Varoufakis sviluppa la sua ricerca in teoria dei giochi – lo studio matematico dei modelli di decisione di agenti in situazioni di conflitto. Molti dei suoi lavori sono focalizzati sugli scioperi, i sindacati, i meccanismi di incontro e scontro alla base della contrattazione.

Non apprezza la sinistra che chiama «delle buone intenzioni», quella che nega il conflitto e la centralità della lotta prendendo a braccetto i poteri forti, come accade nei dipartimenti di Economia delle principali università mondiali. In un articolo si scaglia contro Philippe Aghion, economista di gauche ad Harvard, ispiratore del programma economico di Hollande. Secondo Varoufakis, Aghion è di quella sinistra che critica la diseguaglianza crescente, sì, ma per ragioni tutte sbagliate: «Solo adottando una dedizione radicale alla libertà la luce potrà cadere sui modi in cui il monopolio delle risorse produttive da parte di una classe rende impossibile la libertà di molti e, come diretto sottoprodotto, concentra la ricchezza nelle mani di una sempre più piccola minoranza». Aghion, invece, non è in linea di principio contrario alla diseguaglianza, ma sostiene che livelli troppo alti hanno effetti negativi sull’efficienza e la crescita: «Argomenti che rappresentano una costosa distrazione e un fardello per la causa dell’egualitarismo», chiosa Varoufakis nell’articolo significativa- mente intitolato “Contro l’eguaglianza”. varoufakis

Nel 2000 lascia Sydney, «per una combinazione di nostalgia e disprezzo per la piega conservatrice presa da quella terra», e dopo 22 anni torna nella Grecia che si prepara euforica all’ingresso nell’euro. È la Grecia che si pre- para alle Olimpiadi del 2006, culmine di una crescita che solo nasconde gli squilibri che la porteranno in ginocchio. Ad Atene Varoufakis fonda un dottorato d’élite in Economia, gratuito e basato sul presupposto che l’economia mainstream vada accompagnata dallo studio delle teorie eterodosse, espulse dalla disciplina nel corso dei decenni della Reaganomics. Il motto è una frase di Bertrand Russel: «Vogliamo vedere un mondo in cui l’educazione sia rivolta alla libertà intellettuale e non a imprigionare le menti dei giovani in rigide armature di dogmi».

In questo periodo fa da consulente al primo ministro socialista Papandreou e inizia a scrivere uno dei suoi libri principali, Il minotauro globale: L’America, le vere origini della crisi e il futuro dell’economia globale, pubblicato in Italia nel 2012 da Asterios. Secondo Luca Fantacci, docente di Storia economica alla Bocconi, si tratta di «un bel pezzo di letteratura economica, degno della migliore tradizione europea e largamente condivisibile sul piano dell’analisi». È un libro keynesiano dal punto di vista accademico, ma con una chiara influenza marxiana per i rapporti di forza. La tesi è che l’egemonia globale statunitense del XX secolo si è basata sul «riciclo delle eccedenze globali». Il Piano Marshall, ad esempio, è ciò che ha permesso agli Stati Uniti di riciclare i propri surplus negli scambi internazionali, alimentando il proprio dominio con un investimento nelle capacità dei propri partner di generare nuove eccedenze. Il contrario di quanto sta imponendo oggi la Germania, in un’Europa senza speranza, dove non esiste alcun meccanismo di riciclo degli squilibri. Dirige il dottorato fino al 2008. Nel 2010, a causa dei tagli imposti al sistema universitario greco allo scoppio della crisi, il dottorato viene chiuso. Ah, l’austerità. «È stato il crollo di tutto ciò su cui ho investito nell’ultimo decennio, l’esito di una guerra contro di me per aver espresso le mie opinioni». Si trasferisce ad Austin, in Texas, la città più liberal dello stato più conservatore degli Stati Uniti. In uno scambio di email di quel periodo, spiega che non ha piani per un ritorno in Grecia: «Sono qui e ci rimarrò, per quanto posso prevedere». Insegna alla Lyndon B. Johnson School of Public Affairs e si unisce alla Valve Corporation – una compagnia di sviluppo di videogiochi – dove studia le economie virtuali e la creazione di bolle e squilibri finanziari.

«Internet ha rivoluzionato la produzione e la disseminazione di informazioni», spiega sul suo frequentatissimo sito, «è un esempio primario della dialettica hegeliana (e marxiana) in azione». Dal suo esilio statunitense diventa uno dei punti di riferimento nel dibattito sulla crisi europea. Insieme a Stuart Holland, ex consigliere economico di Delors, propone un piano per ristrutturare i debiti eccessivi dei Paesi europei e dotare la Banca Europea degli Investimenti di abbastanza liquidità per un piano continentale di investimenti. Lo chia- mano “Modest Proposal”, perché internalizza i rapporti di forza nell’Unione tanto da non richiedere alcun cambiamento dei trattati né trasferimenti fiscali tra contribuenti di diffe- renti paesi europei, e potrebbe essere attuato anche da un sottoinsieme di paesi volenterosi attraverso il meccanismo della “cooperazione rafforzato”. Un piano simile è riproposto dal prestigioso think-tank Bruegel. Senza esito. Il resto è cronaca recente. La disperazione crescente dei greci, la candidatura con Syriza, la nomina a ministro. Poche ore prima delle elezioni, Varoufakis spiegava all’emittente inglese Channel4 (il video del reportage per Channel 4 qui sotto) che il suo obiettivo è quello di «distruggere il sistema oligarchico che ha retto la Grecia per decenni». «Siamo un Paese fallito nel 2010, a cui sono stati prestati troppi soldi in cambio di misure volte a diminuire il suo prodotto interno lordo. Persino un bambino di 8 anni avrebbe capito che la situazio- ne sarebbe presto divenuta insostenibile», ha spiegato invece al suo corrispettivo tedesco, il falco Schauble, in un incontro tesissimo – al termine del quale il responsabile delle Finanze del governo Merkel si è rifiutato di scam- biare numeri di telefono. Guai a parlare di piani alternativi. Così dopo il primo bagno di realtà qualcuno, come il New York Times, ha notato un ammorbidimento delle posizioni di Varoufakis, che oggi parla di un “Piano Merkel” sul modello del “Piano Marshall” e dell’analisi contenuta nel Minotauro. A queste osservazioni Varaoufakis, che si considera un realista, ha risposto citando il suo “Modest proposal”: «Starei mandando un messaggio più moderato? Ma io ho sempre mandato messaggi modesti».

 

 

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