Sul numero 20 di Left in edicola fino a sabato intervistiamo Antonino Di Matteo, dal 1992 sostituto procuratore di Caltanissetta e, dal ’99 magistrato a Palermo e da anni impegnato nelle inchieste sulla cosiddetta “Trattativa” tra Stato e mafia. Con il giornalista de La Repubblica Salvo Palazzolo ha scritto Collusi. Perché politici, uomini delle istituzioni e manager continuano a trattare con la mafia. Ecco un breve estratto dall’intervista.
Cominciamo toccando subito il nervo scoperto: a che punto è il processo sulla trattativa? Tolti alcuni siti di informazione sembra quasi che non esista nemmeno un processo in corso, come se fosse già ufficialmente un’inutile bolla di sapone, mentre alcuni collaboratori di giustizia stanno rilasciando dichiarazioni esplosive. Quindi?
Il dibattimento sulla trattativa va avanti con una cadenza piuttosto serrata ormai nel disinteresse generale. Dopo la testimonianza del Capo dello Stato altri passaggi giudiziari secondo noi molto importanti sono passati sotto silenzio. (…) Ci contestano di continuare a indagare nonostante la pendenza del dibattimento. Noi invece riteniamo che ogni spunto vada approfondito e riteniamo che ciò che sta emergendo possa provare l’esistenza di un reato che non è il quello di “trattativa” ma il reato preciso di “violenza e ricatto al governo”: noi pensiamo che i mafiosi abbiano compiuto quella violenza (e quel ricatto) attraverso le bombe, e i politici e gli appartenenti alle istituzioni sono imputati in concorso per avere fatto da cinghia di trasmissione tra i mafiosi e il governo.
La tua bocciatura al Csm mi riporta a Falcone e Borsellino, commemorati ogni anno, e con una delegittimazione così simile alla tua. Tante similitudini. Non ne hai paura?
Ho pudore a parlare di similitudini rispetto a magistrati molto più autorevoli ed efficaci di me, che hanno combattuto la mafia. È certo, però, che quando leggevo, anche attraverso gli atti delle inchieste, la profonda amarezza, soprattutto di Giovanni Falcone, quando gli dicevano di essersi messo una bomba all’Addaura da solo, oppure l’amarezza di tutte le volte che sono stati bocciati i suoi progetti di avanzamento di carriera o di trasferimento, non potevo capire la rabbia e la delusione di quel giudice. Negli ultimi due anni, invece, ho provato un senso di profonda amarezza (…) Ora so che si corre sempre il rischio di diventare (non volontariamente) un simbolo della lotta alla mafia e scatenare gelosie e rancori pericolosissimi, e che i mafiosi sanno cogliere benissimo i segnali di isolamento e di delegittimazione. Alle calunnie reagirò sempre in tutte le sedi. Rispetto le opinioni ma non accetto di essere il «ricattatore del Capo dello Stato» o colui «che si è montato da solo» le minacce di Riina. (…)
Mattarella, Renzi, Grasso e altri hanno telefonato subito a Lucia Borsellino per solidarizzare a seguito di una presunta intercettazione. A te hanno mai chiamato per esprimerti vicinanza?
Mai ricevute telefonate di Presidenti della Repubblica o presidenti del Consiglio. Mai. Nemmeno dopo le minacce di Riina. Nemmeno quando il pentito Galatolo ha riferito il progetto di attentato nei miei confronti. Non chiedermi un commento. Ho dato una risposta sui fatti. Tengo per me le considerazioni.
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