La sera in cui Facebook dichiarò guerra agli Stati Uniti tra gli argomenti di tendenza sul sito del social network troneggiava, inamovibile, la finale dell’ultima edizione di The Voice. Pareva che i 250 milioni di utenti statunitensi del sito non fossero interessati ad altro e non discutessero di altro, almeno a giudicare dalla homepage in cui erano mostrati, in evidenza, i trending topic, cioè gli argomenti di tendenza del momento per guidare fin da subito gli utenti verso i temi più dibattuti. Ovviamente, le maggiori testate nazionali e internazionali avevano coperto la notizia, non appena la dichiarazione di guerra fu pubblicata con un post messo in evidenza sulla pagina del padrone di Facebook, Mark Zuckerberg. Nessuna “bucò” la notizia. E del resto, come avrebbero potuto ignorare un fatto così eclatante come una dichiarazione di guerra alla prima potenza mondiale? Ognuno a modo suo aveva cercato attraverso la propria pagina Facebook di dare la maggiore copertura possibile, con dirette audio o video, aggiornamenti in tempo reale, schede di approfondimento, intervento di esperti di ogni genere, dalla politica estera all’economia, dalla sociologia a internet. Eppure la notizia sembrava non filtrare al di fuori delle pagine Facebook delle televisioni, delle radio e dei giornali verso i profili degli utenti, su altre pagine, in gruppi di discussione. Le interazioni con i diversi post erano basse, bassissime. Pochi like, nessuno share, nessun commento.
I Facebook page manager delle diverse testate faticavano a capire cosa stesse succedendo e ogni sforzo di produrre post accattivanti, arrivando perfino a cercare di integrarsi nel flusso di notizie legate alla finale di The Voice, era vano. Verso le 22.40 uno studente di Akron, nell’Indiana, che aveva sviluppato un algoritmo per monitorare le prestazioni di alcune pagine notò un andamento anomalo della pagina CNN: improvvisamente le interazioni e le impressioni di pagina erano crollate vicino allo zero. Incuriosito, aprì la pagina e, avviando il video della diretta che dava conto di quanto accadeva in seguito alla dichiarazione di guerra, decise di condividere il link sulla propria bacheca ed ebbe l’account sospeso per alcune ore, senza particolari spiegazioni. Più o meno contemporaneamente, un utente di Buffalo apriva la pagina del New York Times alla ricerca di un link che aveva visto passare sulla propria timeline alcune ore prima e si accorse così di quello che stava succedendo. Non riuscendo, per motivi che non capiva, a condividere sulla propria bacheca uno degli articoli pubblicati dal quotidiano, decise di scrivere un post di suo pugno e aprì un gruppo di discussione a cui invitò i suoi più cari amici per commentare insieme quanto stava accadendo. Il gruppo fu chiuso dopo pochi minuti per “violazione delle condizioni d’uso” e gli account di tutti i partecipanti sospesi. Lentamente, anche i post dalle pagine delle diverse testate iniziavano a scomparire. O meglio, non venivano censurati, né cancellati, ma l’algoritmo che regola quale contenuto appare e in che modo su una pagina da tempo aveva preso a privilegiare i post con molte interazioni, ponendoli bene in evidenza sulla pagina, a discapito di quelli meno seguiti, quindi meno interessanti. Quindi le notizie sull’imminente guerra tra Facebook e gli Stati Uniti finivano per scivolare sempre più in basso e sparire dalle pagine. Meno erano visibili in apertura, meno erano viste e più in basso scorrevano. Non c’era salvezza per una notizia condannata dall’algoritmo.
Il Facebook page manager del Washington Post aveva tentato anche di lanciare un’inserzione a pagamento, ma la richiesta era rimasta in sospeso e non veniva né approvata né respinta, mentre intanto il post scivolava nel limbo dei post pubblicati e ritenuti non interessanti. Era il decano tra i suoi colleghi e ricordava bene i tempi in cui la testata per cui lavorava aveva ancora un proprio sito internet, un account su Twitter, un canale su Youtube. Poco alla volta le cose erano cambiate. La possibilità di caricare i video direttamente su Facebook, aggiungendo call to action e tag, la relativamente maggiore facilità nel condividerli da parte dei lettori sulle proprie bacheche, lo spazio privilegiato che l’algoritmo di Facebook dava loro nel flusso di aggiornamenti aveva reso inutile il canale Youtube, che era stato progressivamente abbandonato e trasferito l’archivio sulla pagina Facebook. Avevano abbandonato Twitter solo perché Facebook lo aveva comprato, ne aveva implementato alcune funzioni (tra cui quella dei trending topic) e lo aveva chiuso. Ricordava ancora la drammatica riunione in cui la redazione decise di chiudere il sito internet della testata. Da mesi, ormai, le visite al sito erano una percentuale infinitesimale rispetto a quelle della pagina Facebook e non sempre un link con un’alta interazione su Facebook si traduceva in effettive visite all’articolo sul sito.
La tendenza che voleva, già a metà degli anni ’10 del secolo, i giovani informarsi sui social network era andata accentuandosi al punto che ormai nessuno sapeva più che Washington Post, New York Times, Cnn e le altre corazzate dell’informazione avevano un proprio sito internet. E del resto, era l’idea stessa di “internet” ad essere opaca per la maggior parte delle persone, in particolare quelle nate dopo il 2000. Per molti di loro era normale dichiarare di essere abituali utilizzatori di Facebook, ma di non usare mai internet. In effetti, che bisogno avevano di uscire da Facebook, quando lì dentro potevano condividere esperienze con i propri amici, comunicare con loro, con messaggi personali o di gruppo smettendo di usare l’email, informarsi, perché l’informazione arrivava a loro senza il bisogno di andare a cercarla? Per i più giovani internet semplicemente non esisteva, esisteva Facebook. Il digitale aveva rappresentato una rivoluzione profonda nel modo di produrre, distribuire e consumare informazione. I ruoli avevano perso definizione: non esistevano più i produttori di contenuto da un lato e i fruitori dall’altro. Ciascuno era l’una e l’altra cosa allo stesso tempo. Modi e tempi di produzione e fruizione delle notizie erano rapidamente cambiati: si leggeva, si scriveva, si commentava, si creavano relazioni tra contenuti ovunque, da ogni genere di dispositivo, in qualsiasi momento. Questa rivoluzione fu così rapida che persino i più preparati e i più audaci faticavano a trovare nelle proprie sperimentazioni su forme e linguaggi dei modi per trarre il profitto necessario a permettere alla macchina di continuare a girare.
Ed è comprensibile, quindi, che ad un certo punto l’offerta di Facebook – che aveva un disperato bisogno di contenuto per vivere, e possibilmente contenuto di qualità – si fece così allettante che gli editori non poterono dire di no. Facebook era il luogo in cui centinaia di milioni di persone vivevano quotidianamente. Facebook era ormai diventato internet. Cedere alla tentazione di far diventare Facebook la propria casa in cui pubblicare in esclusiva contenuti apparve come una necessità e i vantaggi sembravano di gran lunga compensare i limiti di una tale scelta. C’era chi sosteneva la necessità di sottomettere la scelta di aderire all’accordo all’impegno da parte di Facebook di fornire ai produttori di contenuto i dati degli utenti, con la consapevolezza che nel mondo digitale il valore deriva dalle relazioni e che nulla, come conoscere la propria audience, permette di aumentare il valore del contenuto che si produce. In realtà nessuno aveva così tanto potere da dettare condizioni a Facebook e nel giro di pochi anni tutti i maggiori organi di informazione avevano chiuso i propri siti, limitandosi a curare la propria presenza su Facebook, pubblicandovi articoli e inchieste.
A questo pensava il Facebook page manager del Washington Post quella sera in cui la più grande azienda al mondo dichiarava guerra allo Stato più potente e nessuno, a parte gli addetti ai lavori, ne era al corrente. Fissando la parete di fronte a sé, indossando i suoi speciali occhiali Facebook, poteva immergersi nella visione della finale di The Voice, circondato dai suoi amici che commentavano in tempo reale quanto accadeva. Ma nessuno di loro sapeva cosa stava succedendo nel mondo, appena sfilati gli occhiali, e nessuno avrebbe potuto saperlo. Non c’era modo di rompere il muro creato dall’algoritmo, che decideva quali notizie sarebbero state lette e quali ignorate. Non esisteva più un luogo, fuori da Facebook, in cui distribuire contenuto, incontrare persone, discutere, a parte piccole e sparute comunità a cui Facebook rendeva la vita impossibile obbligandole a usare parametri forniti da Facebook per ogni funzione. Era diventato impossibile non essere cittadini di Facebook. Per Facebook si lavorava, non percependo alcun compenso, producendo contenuto. Dentro Facebook si viveva, gestendo ogni aspetto delle proprie relazioni attraverso la piattaforma, il profilo rappresentava la propria carta di identità, fornendo ogni genere di informazione su di sé. E Facebook, l’azienda totale e totalizzante, si era fatto Stato e allo Stato aveva deciso di dichiarare guerra. Perché non erano bastati decenni di ignavia e di colpevole inazione dei governi, il liberismo voleva più libertà e l’unico modo per ottenerla era sostituirsi allo Stato, sbarazzarsene e riassumere in sé ogni potere. E quindi la guerra, improvvisa, inaspettata, incomprensibile. Ignorata, perché nessuno era più in condizione di sapere. Una guerra già vinta in partenza, da decenni, che per fortuna nessuno avrebbe dovuto combattere con le armi, dovendo prima capire da quale parte avrebbe dovuto stare. Il Facebook page manager del WashingtonPost spense i suoi occhiali e rimase solo nella redazione deserta. Mentre là fuori nessuna guerra stava per essere combattuta ripensò al giorno in cui, anni prima, durante quella riunione di redazione, fu votato di contribuire alla sconfitta, in quella sera di anni dopo.
(da Left numero 13)
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