Non solo Mostra internazionale di Venezia. A settembre il cinema, quello più impegnato sul versante politico e documentaristico, si trova al Milano Film Festival, che quest’anno compie vent’anni. Nell’arena del teatro Strehler al teatro studio Melato, al parco Sempione, alla Triennale, allo spazio Oberdan e in altre sale messe in rete da questa rassegna, dal 10 al 20 settembre, si possono vedere una serie di prime di taglio politico, a cominciare da Over the Years film dell’ austriaco Nikolaus Geyrhalter che documenta 10 anni della vita dei dipendenti di una fabbrica tessile dopo il fallimento. E poi classici restaurati come Metropolis di Friz Lang. Oppure ritratti d’autore come Sembene! di Samba Gadjigo e Jason Silverman, che racconta l’icona del cinema contemporaneo africano Ousmane Sembène e quello di James Dean messo a fuoco nel film Life, film da Anton Corbjin, attraverso i racconti del fotografo Dennis Stock.
(Un fotogramma tratto da Over the years)
(James Dean a New York, qui sotto nel trailer riconoscerete l’immagine)
Da non perdere è la sezione Colpe di Stato curata da Paola Piacenza. «La storia sembra non poterci dire più chi siamo, ma ci costringe a un’incessante ricerca. Questa è la direzione che Colpe di Stato ha scelto di prendere quest’anno», racconta la documentarista e giornalista culturale. «Indagare in modo nuovo spazi esplorati dal volatile racconto giornalistico, posizionare la bussola verso est e lasciarsi sedurre dall’urgenza del racconto presente andando in cerca delle radici profonde che quel racconto hanno prodotto e deformato».
Un esempio? La Guerra dei Sei Giorni è un nodo centrale della storia di Israele. E’ stata la più fulminea e vittoriosa delle campagne militari dell’era moderna e produsse un nuovo assetto geografico, creando nuovi equilibri, nuove alleanze e riaccendendo antiche rivalità . Il documentario Censored Voices dell’israeliana Mor Loushy torna a raccontare quella guerra del 1967. «Ritrovando una polifonia di voci, refrattarie alla dittatura dell’unanimità . Quelle dei soldati artefici di quella vittoria, registrate dallo scrittore Amos Oz raccogliendo, di kibbutz in kibbutz, verità intime e inammissibili: Gerusalemme non era una città liberata, era una città occupata», dice Piacenza.
Anche Russian Woodpecker di Fedor Alexandrovich volge lo sguardo al passato. «Con il coraggio del reporter e i modi dell’artista avant-garde, ripercorre ossessivamente la vicenda che ha segnato la sua infanzia, il disastro di Chernobyl, crea connessioni, ricostruisce scenari, smuove le acque stagnanti della politica finché si rende conto che i suoi fantasmi abitano territori realmente pericolosi». E ancora: i racconti non embedded dall’Afghanistan dei registi di Tell Spring not to come this year (nella foto qui sotto) e molto altro come si può vedere dal lungo programma.
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