Questa è la prima puntata del racconto di Daniele Di Michele pubblicata su Left 31-32, la seconda la trovate in edicola dal 12 settembre su Left 35
Credetemi, ve ne prego.
Ciò che vi racconterò è effettivamente accaduto.
Vi parlerò di fatti oggettivi, riscontrabili. Potrei darvi, se me le chiedeste, informazioni certe su documenti storici, carteggi, immagini di repertorio, registrazioni telefoniche, fotografie.
Ma si è tra amici, confidenti. Ho una fiducia cieca in ognuno di voi e passare queste informazioni allo scanner per attestarne l’elemento di verità verrebbe a interrompere il rapporto di confidenza che si è creato tra noi.
Anche perché non mi è facile parlarvi di questa storia. Mi vede chiamato in causa personalmente, tocca nervi scoperti.
Proverò a raccontarvi ogni singola cosa nel dettaglio, vi racconterò per filo e per segno come siano andate effettivamente le cose e come questa storia abbia alterato la mia vita, per sempre.
Che poi, se ci si pensa, accadono in modo banale gli appuntamenti con il destino. Hanno l’aspetto distratto e ironico del caso.
Bevevo il mio caffè in piena estate torrida e mi passò davanti in quei quaranta gradi all’ombra, nel caldo umido, nella mattina che segue una nottata turbolenta, del si è svegli da poco, del mal di testa espiazione di uno, tanti, mille bicchieri di rosato di troppo che accadono quando si mangia pesce fresco, o quando il destino, ma questo me lo sono detto solo dopo, ha deciso di incontrarti nel tuo peggior momento.
Del quando sei fragile, senza difese, in fondo. Cotto a puntino.
In quei casi, succede, può succedere, di incappare, perdersi, nel passo leggero di una donna. Seguirne lentamente lo spostamento dell’anca verso l’avanti, vedere il piede quasi nudo se non fosse per quel sandalo di cuoio e quella catenina ad avvolgere, poi, aspettando di essere pronti alla verità, far salire lo sguardo inesorabilmente verso su e scontrarsi con il suo profilo, del suo corpo, del suo viso. Per poi, infine, vederlo ruotare quel profilo, per diventar occhi verdi, da lupa, leggermente socchiusi, per guardare te, esterrefatto, annebbiato.
La commistione del caldo, della tazzina di caffè fatta cadere maldestramente per troppa distrazione, la resaca, la sbornia, il profilo, diventano cosa complicata da gestire tutte assieme. È di quelle giornate che un’informazione alla volta è sin troppo difficile da trattare.
Fu in quel momento che ascoltai quella frase per la prima volta dopo decenni, o forse millenni. Detta da uno dei tre uomini anziani seduti al tavolo di fianco, con camicia aperta a scacchi e canottiera bianca di cotone, sigaretta appesa alle labbra. Quello del centro, con la birra nel taschino della camicia.
Un tempo, una pausa, l’uno guarda l’altro, il tempo di un sospiro, una leggera inclinazione della testa dal basso verso l’alto a indicarla, ormai quasi andata via.
Tutti guardano assieme, nello stesso istante. Poi si guardano. Un altro silenzio. Quello di centro allora dice: Ma quiddhra l’a ’ssaggiata la rucula te l’orte? (trad. Ma lei l’ha assaporata la ruchetta selvatica della Baia dell’Orte?).
Si guardano assieme all’unisono e ridono. Altra pausa. Le mani posate sulle ginocchia, un leggero scuotimento della testa da destra verso sinistra e da sinistra verso destra. Poi, il silenzio, inesorabile.
Guardai la macchia nera del mio caffè sul pantalone, guardai loro, nel loro scuotere in modo incerto la testa, affetti d’un tratto da un’incredibile malinconia, guardai lei uscire fuori dal mio campo visivo ed entrare nelle mura fortificate del paese e seppi, esattamente in quell’istante che avrei dovuto capire una volta per tutte il significato di quella frase. Che dovevo capire del perché nel mio paesino succedono le cose nel seguente ordine: una bella donna passa, i vecchi la guardano, si guardano, dicono la frase in questione, sorridono sornioni e infine si azzittiscono, perdendo d’un tratto, anche solo per un istante, ogni forma di difesa, senza possibilità di controllo.
Mi sfuggiva il nesso, soprattutto: una donna bella, una rucola che cresce selvaticamente e dal gusto particolarmente amaro, lo sguardo prima allegro e poi malinconico di quegli uomini.
Dopo aver capito, nell’istante stesso in cui lo realizzai, come avrei impiegato la mia vita futura, mi accorsi che avrei avuto un’opzione decisamente più sana, logica: inseguire piuttosto l’oggetto in questione, avendomi lei concesso la bellezza totalizzante, totalitaria, dittatoriale del suo sguardo, del suo sorriso, dell’attraversamento dello sguardo, ragione ultima del mio gesto maldestro dell’urtare la tazzina di caffè, e del conseguente versamento del contenuto sulla mia gamba e del suo sorriso, definitivo.
Ma ero stregato da quella frase, risalente a una vita fa, la vita di bimbo. Avevo bisogno di situarmi storicamente in un luogo, sapere di esserne figlio, sapere del perché sono così in fondo, sapere del perché della mia fuga da questo Sud.
Ho cercato me stesso, come direbbe qualcuno, nel momento in cui il caldo del caffè sulla gamba mi risvegliava dal torpore, o stato di grazia, in cui quella donna mi mise.
(continua in edicola)
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