Sardo di nascita e bolognese d’adozione. Japoco Incani torna con il secondo album: Die. E con le sue «fusioni molecolari»: psichedelia, tradizione sarda, elettronica lo-fi e minimal

Iosonouncane, al secolo Jacopo Incani è l’artista indipendente dell’anno 2015, ex aequo con Cesare Basile. «Due artisti diversissimi sul piano stilistico ma accomunati dall’impegno, dal rigore e dal talento, oltre che da una particolare attenzione all’uso della parola e al suo inserimento nel contesto di musiche sempre coraggiose e mai stereotipate», le motivazioni. Le premiazioni avverranno nell’ambito del Mei, il Meeting dell’etichette indipendenti, in programma nei primi quattro giorni di ottobre a Faenza. Per l’occasione, Left pubblica l’intervista musicale di ferragosto proprio a Iosonouncane. Tratta dal n. 31-32 del 15 agosto.

 

Una suite di 38 minuti. Dove fluttuano suoni di un tempo mai vissuto e insieme quelli di ogni giorno. Si presenta così il secondo album di Iosonouncane. Die è una successione di 6 brani: nella burrasca, un uomo in mezzo al mare teme di morire mentre una donna guarda al largo dalla terra ferma nel terrore di non rivederlo più. È la colonna sonora di una manciata di secondi, un disco a-storico e a-sociale, in cui immerso nell’estasi psichedelica riemerge un sorprendente canto a tenore sardo. E nella progressione elettronica si fanno strada echi minimal e cori a più voci. Nel moto ondulatorio di semi-incoscienza, ascoltare Iosonouncane potrebbe rivelarsi un ottimo esercizio di raccoglimento. O almeno così è stato per lui. Jacopo Incani, nato nel 1983 in un comune di appena mille anime del Sulcis, a Buggerru, a 18 anni si trasferisce a Bologna. È in Sardegna che torna per scrivere la sua musica ed è nella sua seconda città che quella musica prende forma materiale, grazie alla Famosa etichetta Trovarubato, che ha già editato per lui l’album di esordio La macarena su Roma (2010). Jacopo ascolta e analizza i dischi degli altri; legge, prende appunti, riformula e trascrive i suoi schizzi. E lo fa quotidianamente, da anni. Poi «addiziona le parole alle melodie». Possiamo definirlo un cantautore? A noi non basta, perciò lo abbiamo chiesto a lui.

Nell’era di iTunes e dei singoli, hai scelto di scrivere una suite. Perché?

È venuta istintivamente, non si è trattato di una scelta. Ho deciso di assecondare alcune intuizioni, quando ho iniziato a scrivere mi sono reso conto che non pensavo a delle canzoni finite, ma a un flusso. L’unica scelta è stata quella di non farmi spaventare dal fatto che potesse essere in controtendenza.

Come le inedite combinazioni sonore. È una scelta artistica oppure “sociale”, volevi tenere dentro le tue radici?

Artistica. Per me suona naturale il canto a tenore sardo in quella dimensione sonora. E niente questioni sociali… me ne sono altamente fregato. Di quale società parliamo e di quale pubblico? Sono domande che se inizi a portele ti rendi conto che sono inconsistenti.

A-storico e a-sociale, sembri un po’ sospeso in aria. È così?

Sospeso in aria o anche immerso completamente nella terra. Sono due cose complementari o sono probabilmente la stessa cosa… L’a-storicità e l’a-socialità sono una cosa estremamente voluta. I testi sono isolati rispetto a quello che si sente oggi in Italia, senza riferimenti di attualità di nessun tipo. Ma è pur vero che una cosa tanto più è arcaica, tanto più è futuribile… il mio intento è quello: arrivare a una forma arcaica, per poter essere perennemente attuale essendo perennemente fuori moda.

In Sardegna per scrivere, a Bologna per registrare. È lo specchio della tua vita?

Quello che mi riesce di fare meglio in Sardegna è mettere a fuoco le idee. È come se lì avessi la possibilità di far calmare l’acqua per vedere in trasparenza il fondo. Riesco a raccogliermi. Poi ho bisogno di tornare a Bologna per intraprendere la fase operativa, quella più tecnica, che richiede anche una certa frenesia. Sicuramente queste sono due facce del mio metodo e anche della mia persona.

Se dico: «Buongiorno, sono Jacopo, in che cosa posso esserle utile?», cosa ti viene in mente?

Mi viene l’ansia se mi dici così (ride). Ho lavorato per anni in un call center, ed è un lavoro disumano. Ti viene chiesto un livello di concentrazione altissimo per produrre una manciata di operazioni meccaniche. È terrificante, arrivi a fine giornata, dopo otto ore, in cui hai preso circa 120 chiamate e vuol dire che per 120 volte nell’arco di una giornata hai detto sempre le stesse frasi di rito, come quella che mi hai fatto tu. Sei un software umano.

E quando te ne accorgi ti licenzi, come hai fatto tu.

Io sì, ma la grande maggioranza, comprensibilmente, non lo fa. È difficile tornare a casa dopo 8 ore di telefonate e trovare le forze per connetterti a internet e cercare un altro lavoro. Io l’ho fatto in modo spregiudicato ma perché sapevo da sempre che avrei fatto il musicista.

Nonostante il passaggio dentro quella specie di macchina ammazza creatività?

Sì, i testi del mio primo disco li ho scritti tra una chiamata e l’altra a lavoro, quindi nel mio caso è stata una spinta. In quella situazione di costrizione, di compressione, mi veniva la “fusione molecolare”.

Dicono che la tua voce ricorda Battisti, ma anche Dalla e anche Gaber. Tu che dici?

Che quando le somiglianze son tante vuol dire che va bene (ride). In fondo, ogni voce nasce imitando un’altra voce.

Come ti senti addosso la definizione di cantautore?

Molto stretta. Poi ogni definizione va letta nel contesto in cui si esprime. In Italia il concetto di cantautore è molto reazionario, consolatorio e conservatore. Proprio di quella sinistra culturale italiana che si rifugia nell’idea del passato come unica forma di bello possibile. Il mio disco non assomiglia a nessun disco precedente. Sono un musicista che si dedica con pignoleria alla scrittura e poi interpreta ciò che scrive e arrangia. Mi si può anche chiamare cantautore… so che giornalisticamente serve un lessico condiviso, quindi non tiro su barricate. Diciamo che non mi interessa.

Ultima domanda. Perché sei un cane?

Con il mio primo disco, avevo in mente tanta satira sociale, ma non volevo puntare il dito contro nessuno, perché non sapevo bene contro chi puntarlo. L’unico bersaglio immobile che riesco a mettere a fuoco sono io. Perciò…

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