«Non c’è nessuna metamorfosi»,parola di Alessandro Di Battista, deputato e volto noto del Movimento 5 Stelle. Raggiunto al telefono da Left, cerchiamo di capire se il mutamento che sta attraversando il Movimento rispetto a quando è entrato in Parlamento, sia incoerenza dovuta alla maggiore confidenza con la politica da loro tanto aborrita, o normale evoluzione.

«Non c’è nessuna metamorfosi»,parola di Alessandro Di Battista, deputato e volto noto del Movimento 5 Stelle. Raggiunto al telefono da Left, cerchiamo di capire se il mutamento che sta attraversando il Movimento rispetto a quando è entrato in Parlamento, sia incoerenza dovuta alla maggiore confidenza con la politica da loro tanto aborrita, o normale evoluzione. «Nessun mutamento, semmai un’evoluzione». Ma la metamorforsi c’è. È iniziata tempo fa, silenziosa per il mainstream, meno per chi la viveva: è iniziata sul territorio. La si respirava non solo nei grandi meeting nazionali, in cui c’era una netta separazione non fra il palco e la piazza il primo è sempre stata l’arma vincente di Beppe, sin dal primo V-day a Bologna nel 2007 ma fra chi vi saliva sopra e chi restava sotto. Sopra le stelle, sotto i cittadini. Tanto che in alcune manifestazioni, come quella di Genova del 2013, lo staff della Casaleggio associati pensò bene di vietare ai parlamentari l’ingresso al palco, in modo che Grillo potesse urlare: «Vedete? I nostri sono fra la gente». Di Battista non è d’accordo, naturalmente: «Abbiamo ascoltato tanto, soprattutto la gente. E proprio su questo abbiamo impostato la nostra attività, in virtù dei cittadini. Si pensi al reddito di cittadinanza». Vero, e gli va riconosciuto, come infatti ha fatto la Caritas nel suo rapporto. Ma è anche vero che è proprio fra la gente che si respirava la distanza fra i leader e gli attivisti.

Come a Roma: l’anno scorso al Circo Massimo, c’era addirittura chi meditava di affittare interi pullman per andare a Milano, alle sede della Casaleggio associati, pur di farsi sentire da chi era a un passo da loro. Era tanto forte che si temette addirittura la fronda di “Capitan Pizza”. Quel sindaco di Parma, unico ad avercela fatta finora, ad aver messo in pratica un modo nuovo di governare, ma colpevole di non seguire i dictat calati dall’alto.
E proprio qui si vede il più grande degli strappi del Movimento, ormai istituzionalizzato: l’esistenza di un alto, e la svalutazione del basso, di quel basso da cui doveva nelle origini provenire la democrazia, condivisa, partecipata. Eppure no, «nessuna mutazione, te lo ripeto. Non abbiamo sempre rispettato i patti? Restituiamo gli stipendi, non facciamo alleanze, due mandati e poi via? Manterremo anche questa». Anche questa, parola del “Dibba”, come confidenzialmente lo chiamano i suoi. Quindi nessuna candidatura a sindaco della Capitale? «Se a Roma si voterà prima della scadenza del mio mandato, io non posso candidarmi, quindi no. Non mi candiderò. Dopodiché, io non ci credo ai salvatori della patria, credo nella squadra. Senza, a Roma possono candidare pure De Gaulle».

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Left n. 36: “Renzi mangiatutto. Perchè il governo Renzi imita il governo Berlusconi e non il governo Prodi? “

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Purtroppo, l’inizio del distacco, si sentiva proprio nella solitudine dei silenziosi consiglieri locali, comunali o regionali: quegli eletti, ancora sparuti, apripista di un sistema politico oppositivo, del tutto lasciati soli dal mainstream pentastellato e meritevoli di un post sul blog solo di rado o per essere rimessi in riga. C’era perfino un lessico, un tempo, guai a chiamarli onorevoli, guai a parlare di leader. E, un tempo, guai a prendere decisioni senza sottoporle alla rete, soprattutto perché era difficile controllarne la trasparenza. Oggi il proprio candidato in Rai lo si decide nelle segrete stanze: “non c’era tempo”, si dirà. E c’era, nel primo Movimento, una cosa che oggi è difficile anche solo pensare di proporre: la remissione del mandato. Ogni 6 mesi, i primi cittadini eletti in Regione, in Emilia-Romagna, si presentavano in tutte e nove le province e farsi valutare dai loro elettori. Eventualmente, erano pronti a lasciare la poltrona. Ogni sei mesi. Di questo, non c’è più traccia. Né nei nuovi, né nei vecchi. L’unico a far qualcosa di simile, è Patrizio Cinque, nuovo sindaco di Bagheria, che ha introdotto il “question time comunale” in cui i cittadini possono interrogarlo su scelte e problemi della città, e il sindaco sarà tenuto a rispondergli pubblicamente come da nuovo Statuto. I palchi e la tv, allora, per chi lavorava sul territorio, erano appaltati a Beppe e di ben poco interesse. Il leaderismo, come ben sanno gli ex consiglieri regionali Giovanni Favia e Andrea Defranceschi, quest’ultimo praticamente minacciato a mezzo blog perché colpevole di fare “scuole di politica”, semplicemente perché, a richiesta del territorio, era l’unico rappresentante a potersi radunare assieme ai nuovi arrivati e spiegare loro i tranelli del macchiavellico Pd.

Tutto questo perché, sul territorio, il blog taceva. Oggi, il contatto con i meet-up, è appaltato al Direttorio. Anche questo, calato dall’alto. Cosa sarebbe successo, nel Movimento delle origini, se qualcuno avesse proposto una struttura simile a una segreteria di partito? Impensabile. «Com’era impensabile due anni fa che avremmo avuto 1.700 eletti. E queste persone vanne messe in rete, quindi si sono affidate maggiori responsabilità, non un comando, a determinate persone. Tutto si evolve. Ma un membro del Direttorio vale quanto chiunque altro». Difficile crederlo, perché spesso sul territorio, l’uno vale uno si è trasformato nell’uno vale l’altro. Tuttavia, secondo il membro del Direttorio, «la fiducia generale nel M5s cresce, perché la coerenza, alla fine paga», probabilmente perché certe azioni, come la costruzione di una strada in Sicilia con i soldi restituiti, fanno più effetto dei proclami.

A proposito di coerenza però, a noi spiace ma la domanda sorge spontanea. Mentre scriviamo, Di Battista sarà a Ballarò. Tre anni fa Federica Salsi, consigliera comunale di Bologna, venne espulsa senza appello proprio per questo. A questo, il deputato si rifiuta di rispondere. E sempre a proposito di coerenza, un tempo, il protagonismo di pentastellati eletti era ritenuto il massimo oltraggio allo spirito del Movimento. Pazienza se quelli che lo gridavano prima, insultando, ora sono i primi a cavalcare palchi e decisionismo.

Come il consigliere comunale di Bologna Massimo Bugani. Ha recentemente annunciato che in barba ai saldi principi di democrazia dal basso, sarà lui a calare dall’alto la squadra che si proporrà alle prossime elezioni amministrative del 2016. «A me questo non interessa. A me interessa parlare della Terra dei fuochi, del fatto che a Taranto si muore ancora di tumore e della disoccupazione giovanile al sud». Perfetto, ma la disuguaglianza dei metodi resta. Due pesi due misure? «Il giorno in cui un candidato non verrà deciso dalla rete, ti darò ragione». Insomma, forse non ci sarà una metamorfosi, ma l’uguaglianza è una stella che nel Movimento è caduta presto. Una cosa, granitica, è però rimasta in piedi: il fine che giustifica i mezzi. E dunque, proprio in nome di questo principio, qualsiasi cambiamento è bene accetto. Si chiami pure evoluzione, che in effetti fa parte della storia di tutti i partiti.

 

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/TizianaBarilla” target=”on” ][/social_link] @giupp_i

Impicciarsi di come funzionano le cose, è più forte di lei. Sarà per questo - o forse per l'insanabile e irrispettosa irriverenza - che da piccola la chiamavano “bertuccia”. Dal Fatto Quotidiano, passando per Narcomafie, Linkiesta, Lettera43 e l'Espresso, approda a Left. Dove si occupa di quelle cose pallosissime che, con suo estremo entusiasmo invece, le sbolognano sempre: inchieste e mafia. E grillini, grillini, grillini. Dalla sua amata Emilia-Romagna, torna mestamente a Roma, dove attualmente vive.