Dall'1 al 4 ottobre, a Faenza, si terrà come di consueto l'appuntamento con la musica indipendente italiana. Left e la rivista musicale ExitWell, aspettano il #nuovoMei2015 con una serie di interviste ai protagonisti di questa edizione. La chiacchierata numero 4 è con Paolo Zanardi
Dall'1 al 4 ottobre, a Faenza, si terrà come di consueto l'appuntamento con la musica indipendente italiana. Left e la rivista musicale ExitWell, aspettano il #nuovoMei2015 con una serie di interviste ai protagonisti di questa edizione. Ecco la chiacchierata con Paolo Zanardi

Paolo Zanardi è un cantautore pugliese, romano d’adozione, nato il 9 gennaio 1968. Inizia a suonare nel 1994 con i Borgo Pirano – che vincono il premio Ciampi nel 1996 e il Premio Città di recanati nel 1998. Inizia, poi, la sua carriera solista nel 2005 con Portami a fare un giro, seguito da I barboni preferiscono Roma del 2007 e Tutte le feste di domani del 2011. È prevista, per il 10 ottobre, l’uscita del suo nuovo album solista per Lapidarie Incisioni, Viaggio di ritorno.

Zanardi, dove vai e da dove ritorni?

Ho scelto quel titolo perché alla mia età, ormai, il “viaggio” è al contrario. È di ritorno verso “casa”. Questo è un disco “urbano”, molti brani parlano dei posti dove vivo, di Roma e delle sue periferie multietniche. È il compendio degli ultimi tre o quattro anni vissuti in vari appartamenti e in varie periferie della Capitale. Sono come delle puntate sparse di un film mai realizzato.

Abbiamo aspettato quattro anni per l’uscita di un tuo nuovo disco, come mai tanto tempo?

Tendo a prendermela comoda… la maggior parte dei brani era pronta già tre anni fa. Quelli del prossimo album sono già pronti, ma magari usciranno tra anni. Perché è difficile, ogni volta, trovare qualcuno che investa in un artista, ma per questo disco ho trovato il supporto di un’etichetta romana, Lapidarie Incisioni.

“Arca di Noè”, il primo singolo in anteprima, è un brano denso di significati, alcuni subliminali: la fine del Mondo, Noè – e quindi Dio – come Salvezza, l’Amore come mezzo “clandestino” per sopravvivere. Qual è la genesi del brano?

È nata di getto. Un mio amico fissato con la macrobiotica e la salvezza del pianeta mi parlava spesso dei ghiacciai in scioglimento, e volevo scrivere da anni qualcosa di ironico a riguardo, poi il pezzo è andato in tutt’altra direzione. Se c’è qualcosa di mistico non è certo qualcosa di teologico o divino, ma più teso verso la Natura, massacrata dagli uomini. Pur non essendo un ecologista amo molto gli animali. Per il resto, per me l’ideale è quando una canzone è aperta e ognuno può cercare il proprio significato.

Un altro pezzo, “C’è splendore in ogni cosa”, lo hai dedicato a Piero Ciampi. Perché hai scelto lui?

Sì, l’ho dedicato a lui, anche se non l’ho neanche scritto sul cd perché ormai va di moda “usare” Piero Ciampi. Lo ammiro molto e lo ritengo inimitabile nel panorama musicale. L’omaggio in realtà è venuto dopo aver scritto il brano, avevo utilizzato nella canzone un verso da “Te lo faccio vedere chi sono io” (brano di Ciampi del 1973, ndr) e volevo quasi risarcirlo. È un omaggio sentito e molto personale, per questo ho evitato di manifestarlo sul disco.

Nei tuoi brani rifuggi drasticamente dalla retorica dei giorni d’oggi, dalla pretesa di far poesia con le canzoni. Trovi cambiato il linguaggio musicale nei tuoi oltre vent’anni di attività?

Quando un mio brano scade nella retorica lo ritengo un fallimento. Punto ad andare contro una certa musica underground, quel cosiddetto “indie rock italiano” che abbonda di testi spesso fintamente poetici, che trovo sconfortanti. Una volta essere “indipendente” era motivo di orgoglio, c’erano musicisti liberi per davvero e non travestiti da “sanremesi” repressi che non vedono l’ora di farsi vedere da mamma e papà. Io sono legato alla musica che ascoltavo nella mia adolescenza, i Diaframma, i Cccp, gli Avion Travel, musica molto più valida.

Una volta… e adesso cosa vuol dire essere “indipendente”?

Il termine “indipendente” oggi mi sembra inflazionato. Non ti nascondo che ho più confidenza con il concetto di “dipendenza” in generale: sono drammaticamente dipendente da tutto, dai rapporti, dalle persone. In tutto tranne che nella musica, lì sono il più indipendente di tutti. Ma oggi “indipendente” significa solo non avere soldi e adattarsi.

E il mercato, invece, com’è cambiato?

La discografia ormai è un’opinione, i dischi si fanno a fondo perduto e forse tra qualche anno non si faranno più. Per me è un dramma. Il disco è un oggetto bellissimo, che compravamo anche solo per la copertina, e io sono ancora molto legato al vinile. Dal cd a oggi la svalutazione della musica è costante, fino ad arrivare allo streaming e al digitale che hanno ucciso i diritti d’autore. Soldi non ce ne sono più e quindi si rischia sempre di meno, l’unico modo per tirare su qualche soldo è fare concerti. È una forma di delirio organizzato: la prossima volta che vado al supermercato mi porterò la chitarra e proporrò di pagare la mia spesa con uno stornello!

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