Due pesi due misure: come quella politica, anche la bilancia della Corte dei Conti capita sia tarata su pesi diversi.
In attesa di un eventuale pronunciamento sulle spese del sindaco di Roma Ignazio Marino, la condanna morale e politica è già stata emessa. Lungi da chi scrive sostituirsi a pubblico ministero o difesa dell’amministratore, e senza entrare nel merito della giustezza o dell’opportunità delle spese da egli sostenute, il punto resta: i soldi pubblici si usano con parsimonia e pertinenza.
Dunque. Marino spende in cene, Renzi lo condanna e lo caccia. Il concetto è: il primo cittadino deve utilizzare i fondi con oculatezza e nel rispetto dei cittadini. Benissimo.
Ma qualcuno ricorda le motivazioni della sentenza di assoluzione rispetto alla condanna per danno erariale con colpa grave causata dal Presidente del Consiglio quando era a capo della Provincia (pubblicate a febbraio sul fattoquotidiano.it da Thomas Mackinson)?
Tra il 2004 e il 2009, Matteo Renzi è Presidente della Provincia di Firenze e assume quattro funzionari nella sua segreteria senza che avessero i requisiti richiesti da quel tipo di inquadramento (laurea) e, ça va sans dire, al corrispondente (e illegittimo) peso d’oro. Una “leggerezza” che secondo i giudici contabili toscani avrebbe causato un danno alle casse pubbliche di 2.1 milioni di euro (poi ridotto a un risarcimento di 50mila euro, poi 14mila, per il presidente). Ma la Corte dei conti di Roma, sezione centrale d’appello (Presidente il giudice Martino Colella, che una settimana dopo diventerà, con ratifica a firma Renzi, Procuratore generale della Corte dei Conti) invece ribalta le due condanne precedenti della Sezione giurisdizionale:
«Invero, pur non ricorrendo gli estremi della cosiddetta “esimente politica”, questo Collegio ritiene di poter rilevare l’assenza dell’elemento psicologico sufficiente a incardinare la responsabilità amministrativa, in un procedimento amministrativo assistito da garanzie i cui eventuali vizi appaiono di difficile percezione da parte di un “non addetto ai lavori”.
Tradotto: sebbene riconosciamo la responsabilità politica (e dunque morale) al Presidente, siccome non è un tecnico non era cosciente del danno che arrecava. Non è in grado di percepire le illegittimità delle proprie gesta. Il signor Matteo Renzi non ha responsabilità del suo agire «per insussistenza dell’elemento psicologico». Renzi esulta sprezzante di cosa questo significhi, ovvero che è incapace di intendere a pieno e dunque di volere.
E fa nulla se, come pure scrive la Corte:
«è pur vero che il presidente Renzi ha indicato nominativamente i componenti della propria segreteria; se è pur vero che il presidente Renzi ha preso visione dei relativi curricula, rendendolo ciò consapevole del livello culturale degli interessati; se è pur vero che i provvedimenti erano a firma del presidente della Provincia».
Fa niente se aveva letto e visionato tutto, ogni contratto e centesimo a esso finalizzato. Non è colpa sua, perché: «i pareri (ben quattro) resi nell’ambito dei procedimenti interessati e i relativi contratti sono stati curati dall’entourage amministrativo e dalla struttura amministrativa provinciale che hanno sottoposto all’organo politico una documentazione corredata da sufficienti, apparenti garanzie tanto da indurre ad una valutazione generale di legittimità dei provvedimenti in fase di perfezionamento». Gli uffici gli hanno garantito che si poteva e lui se l’è fatto bastare. Benissimo.
Cosa che varrà anche per Marino, probabilmente, come ha recentemente dichiarato lo stesso Alfonso Sabella, assessore alla Legalità: qualche errore l’avrà commesso anche il suo entourage, di cui un amministratore necessariamente si avvale, come abbiamo visto per l’ex presidente della Provincia.
Epperò c’è un’altra sentenza (attualmente in attesa dei pronunciamento della Corte Costituzionale e della sezione centrale) che, guarda un po’, sostiene esattamente il contrario. Siamo in Emilia-Romagna, e riguarda l’utilizzo da parte dei Gruppi consiliari regionali dei fondi assembleari per il pagamento di spazi televisivi, e la Sezione giurisdizionale del Corte dei Conti sentenzia che:
«Perché si abbia colpa grave non è richiesto perciò che si sia tenuto un comportamento assolutamente scriteriato o abnorme, ma è sufficiente che l’agente abbia omesso di attivarsi come si attiverebbe, nella stessa situazione, anche il meno provveduto degli amministratori esercente quella determinata attività».
Quale che sia il danno causato, siccome la responsabilità è in capo al presidente del Gruppo consiliare, la colpa ricade su di lui che non si è accertato a sufficienza della correttezza delle proprie e delle altrui gesta. Proprio su questa tesi, è stato costruito tutto l’impianto accusatorio nei confronti dei capigruppo regionali. La motivazione è che:
«le risorse assegnate ai capigruppo per coprire le spese sostenute nell’interesse del gruppo, fanno sorgere a carico dei percettori, i responsabili del gruppo consiliare, un onere di rendicontazione nei confronti della Regione, nonché un dovere di vigilanza relativamente alla corretta destinazione delle medesime».
E questo perché: «il Presidente del gruppo ha la legale rappresentanza del gruppo ai fini dell’impiego dei fondi e quindi a lui è intestato il potere di diretta disposizione della spesa e quello di approvazione delle spese ove esse si riferiscano alle iniziative di singoli componenti del gruppo». Essendo dunque colui che rimanda all’Ufficio di Presidenza il bilancio, deve dunque «verificare la correttezza formale e sostanziale della spesa».
Dunque fa niente se ci sono stati controlli pregressi e responsabilità di altri soggetti, anzi: il fatto che ci sia un precedente controllo degli altri organi istituzionali preposti (come l’Ufficio di Presidenza e i revisori dei conti) «non può costituire un effetto scriminante capace di elidere o di attenuare la responsabilità dell’autore dell’atto».
Gli eletti – in quanto funzionari pubblici e responsabile della gestione delle finanze – sono obbligati a essere a conoscenza non solo dell’impiego dei soldi, ma anche di verificare che siano a norma di legge. E dunque, legge e contabilità, la devono conoscere. Insomma, ignorantia legis non excusat, caro Presidente: se lo ammette la morale di alcuni, l’ignoranza non la ammette la la legge. Soprattutto quando crea dannno alle casse pubbliche.