Secondo una ricerca della Stanford University pubblicata sulla rivista Nature, il riscaldamento globale in atto farà sì che il Prodotto interno lordo dell'intero Pianeta nel 2100 sarà inferiore del 23 per cento rispetto a quello che potrebbe essere senza gli sconvolgimenti climatici. «Stiamo fondamentalmente buttando via i soldi nel momento in cui non affrontiamo la questione», ha spiegato Marshall Burke, docente della Stanford University. «Consideriamo il nostro studio uno strumento per fornire una stima dei benefici legati alla riduzione delle emissioni». Lo studio, intitolato "Global non-linear effect of temperature on economic production", ha preso in considerazione i dati storici relativi al rapporto tra aumento di temperatura e produttività, senza tener conto dell'impatto economico dell'innalzamento del livello dei mari, delle tempeste o degli altri effetti del cambiamento climatico. Non è la prima che una ricerca collega  l'emergenza climatica a un calo del Prodotto interno lordo: un report di due mesi fa realizzato dal colosso bancario statunitense Citigroup ha evidenziato come, nei prossimi anni, contenendo l'aumento di temperatura entro 1,5 gradi centigradi si può contenere la perdita di Pil mondiale entro i 20mila miliardi di dollari.

Il costo della mancata risposta, spiega lo studio, sarà di 44mila miliardi di dollari di perdita di Pil al 2060 se la temperatura aumenterà di 2,5 gradi e addirittura di 72mila miliardi se l'aumento sarà di 4,5 gradi centigradi.

pil La notizia arriva mentre a Bonn sono in corso i negoziati preliminari al vertice sul clima di fine novembre a Parigi. Proprio in vista della Conferenza delle parti (Cop21) francese che dovrà fissare nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra, l’Ong Corporate Accountability International ha lanciato una petizione per chiedere di escludere le grandi aziende inquinatrici dai negoziati sul clima. Gli attivisti chiedono che società energetiche, compagnie petrolifere e del gas, produttori e “utilizzatori” di carbone non interferiscano con le trattative. A denunciare le pressioni di questa lobby per boicottare il successo dei negoziati è uno dei portavoce di Corporate Accountability International, Jesse Brag, il quale traccia un parallelismo con l’industria del tabacco e la “manipolazione” che ha ritardato così tanto la presa di coscienza collettiva sui danni del fumo. Le ultime notizie da Bonn riguardano il braccio di ferro tra G77 e Cina contro i Paesi più ricchi. I 77 (che in realtà sono 180 e rappresentano l'80% della popolazione) chiedono risorse per applicare le politiche di riduzione delle emissioni, che al momento non ci sono nella bozza di documento in discussione. Nel 2009 a Copenhagen la promessa era di 100 miliardi l'anno a partire dal 2020. Ma la conferenza nella capitale danese fu un fallimento. Un’attività di pressione che - nel caso del clima - avviene soprattutto nei confronti di governi e parlamenti nazionali e che, ad esempio, negli Usa ha preso di mira il Clean Power Plan del presidente Obama. A supporto di questa tesi l'Ong cita un documento dell'organizzazione no-profit britannica InfluenceMap dal titolo Big Oil ant the obstruction of climate regulations. Altra criticità, spiegano gli attivisti della campagna “Kick big polluters out of climate policy” che intanto ha quasi raggiunto le 400mila adesioni, sono le cosiddette “sliding doors”, le porte girevoli che vedono sempre più spesso esponenti dell’industria fossile passare in ruoli chiave della pubblica amministrazioni (e viceversa) per occuparsi proprio di energia e clima. Un’osmosi che influenza pesantemente le scelte dei governi in materia di riduzione delle emissioni climalteranti.

Basta dare un’occhiata alla classifica delle 25 multinazionali più potenti del Pianeta recentemente riprodotta dal Centro nuovo modello si sviluppo per capire che ruolo giochino nel determinare le scelte dei governi giganti delle energie fossili come Sinopec, con 446.811 milioni di dollari di fatturato, Royal Dutch Shell, China National Petroleum, Exxon Mobil, Bp, Total, Chevron.

Le 25 maggiori multinazionali In Italia parte oggi una tre giorni di mobilitazione della Coalizione di associazioni ambientaliste nata in vista della Cop21  di Parigi: lo slogan scleto è "Il clima è il mio pallino", con scritta bianca su un cerchio rosso che ricorda il Pianeta surriscaldato. Le attività procederanno fino ai giorni del vertice, con una marcia globale prevista per domenica 29 novembre con l'obiettivo di fare pressione per un accordo soddisfacente. Organizzazioni internazionali come 350.org e Attac Francia annunciano invece azioni di disobbedienza civile in concomitanza con gli ultimi giorni del summit parigino, l'11 e 12 dicembre. 130 organizzazioni internazionali e migliaia di persone confluiranno attorno a Le Bourget, la zona di Parigi sede del vertice sul clima, portando con sé delle fasce gonfiabili di colore rosso per simboleggiare i limiti da non oltrepassare se si vuole salvare il destino del Pianeta e di chi lo abita, contenendo l'aumento della temperatura globale entro i due gradi centigradi al 2100. DSC_0097DSC_0161

Secondo una ricerca della Stanford University pubblicata sulla rivista Nature, il riscaldamento globale in atto farà sì che il Prodotto interno lordo dell’intero Pianeta nel 2100 sarà inferiore del 23 per cento rispetto a quello che potrebbe essere senza gli sconvolgimenti climatici. «Stiamo fondamentalmente buttando via i soldi nel momento in cui non affrontiamo la questione», ha spiegato Marshall Burke, docente della Stanford University. «Consideriamo il nostro studio uno strumento per fornire una stima dei benefici legati alla riduzione delle emissioni». Lo studio, intitolato “Global non-linear effect of temperature on economic production”, ha preso in considerazione i dati storici relativi al rapporto tra aumento di temperatura e produttività, senza tener conto dell’impatto economico dell’innalzamento del livello dei mari, delle tempeste o degli altri effetti del cambiamento climatico. Non è la prima che una ricerca collega  l’emergenza climatica a un calo del Prodotto interno lordo: un report di due mesi fa realizzato dal colosso bancario statunitense Citigroup ha evidenziato come, nei prossimi anni, contenendo l’aumento di temperatura entro 1,5 gradi centigradi si può contenere la perdita di Pil mondiale entro i 20mila miliardi di dollari.

Il costo della mancata risposta, spiega lo studio, sarà di 44mila miliardi di dollari di perdita di Pil al 2060 se la temperatura aumenterà di 2,5 gradi e addirittura di 72mila miliardi se l’aumento sarà di 4,5 gradi centigradi.

pil

La notizia arriva mentre a Bonn sono in corso i negoziati preliminari al vertice sul clima di fine novembre a Parigi. Proprio in vista della Conferenza delle parti (Cop21) francese che dovrà fissare nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra, l’Ong Corporate Accountability International ha lanciato una petizione per chiedere di escludere le grandi aziende inquinatrici dai negoziati sul clima. Gli attivisti chiedono che società energetiche, compagnie petrolifere e del gas, produttori e “utilizzatori” di carbone non interferiscano con le trattative. A denunciare le pressioni di questa lobby per boicottare il successo dei negoziati è uno dei portavoce di Corporate Accountability International, Jesse Brag, il quale traccia un parallelismo con l’industria del tabacco e la “manipolazione” che ha ritardato così tanto la presa di coscienza collettiva sui danni del fumo.

Le ultime notizie da Bonn riguardano il braccio di ferro tra G77 e Cina contro i Paesi più ricchi. I 77 (che in realtà sono 180 e rappresentano l’80% della popolazione) chiedono risorse per applicare le politiche di riduzione delle emissioni, che al momento non ci sono nella bozza di documento in discussione. Nel 2009 a Copenhagen la promessa era di 100 miliardi l’anno a partire dal 2020. Ma la conferenza nella capitale danese fu un fallimento.

Un’attività di pressione che – nel caso del clima – avviene soprattutto nei confronti di governi e parlamenti nazionali e che, ad esempio, negli Usa ha preso di mira il Clean Power Plan del presidente Obama. A supporto di questa tesi l’Ong cita un documento dell’organizzazione no-profit britannica InfluenceMap dal titolo Big Oil ant the obstruction of climate regulations. Altra criticità, spiegano gli attivisti della campagna “Kick big polluters out of climate policy” che intanto ha quasi raggiunto le 400mila adesioni, sono le cosiddette “sliding doors”, le porte girevoli che vedono sempre più spesso esponenti dell’industria fossile passare in ruoli chiave della pubblica amministrazioni (e viceversa) per occuparsi proprio di energia e clima. Un’osmosi che influenza pesantemente le scelte dei governi in materia di riduzione delle emissioni climalteranti.

Basta dare un’occhiata alla classifica delle 25 multinazionali più potenti del Pianeta recentemente riprodotta dal Centro nuovo modello si sviluppo per capire che ruolo giochino nel determinare le scelte dei governi giganti delle energie fossili come Sinopec, con 446.811 milioni di dollari di fatturato, Royal Dutch Shell, China National Petroleum, Exxon Mobil, Bp, Total, Chevron.

Le 25 maggiori multinazionali

In Italia parte oggi una tre giorni di mobilitazione della Coalizione di associazioni ambientaliste nata in vista della Cop21  di Parigi: lo slogan scleto è “Il clima è il mio pallino”, con scritta bianca su un cerchio rosso che ricorda il Pianeta surriscaldato. Le attività procederanno fino ai giorni del vertice, con una marcia globale prevista per domenica 29 novembre con l’obiettivo di fare pressione per un accordo soddisfacente. Organizzazioni internazionali come 350.org e Attac Francia annunciano invece azioni di disobbedienza civile in concomitanza con gli ultimi giorni del summit parigino, l’11 e 12 dicembre. 130 organizzazioni internazionali e migliaia di persone confluiranno attorno a Le Bourget, la zona di Parigi sede del vertice sul clima, portando con sé delle fasce gonfiabili di colore rosso per simboleggiare i limiti da non oltrepassare se si vuole salvare il destino del Pianeta e di chi lo abita, contenendo l’aumento della temperatura globale entro i due gradi centigradi al 2100.

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