Francesca Fornario ci racconta La banda della culla, un romanzo dove si ride per non piangere. E si racconta di un mondo di affetti dove vale tutto. Adozione, fecondazione eterologa, affido, amicizia

Mentre leggevo La banda della culla di Francesca Fornario ho pensato che se nel 2004 lo avessi avuto per le mani forse sarebbe stato diverso, per me. Avrei cercato anche io la mia banda, avrei avuto un quartier generale (nel libro è un ristorante messicano dove lavora Miguel, medico chirurgo argentino, che in Italia è costretto a fare il cameriere), mi sarei «preoccupata insieme ad altri» come mi racconta l’autrice «perché è meglio», avrei persino trovato il lato buffo in quello che mi accadeva. Tutto nel libro di Francesca Fornario mi è sembrato familiare, la sensazione di «essere genitori senza figli», l’impatto feroce con le stranezze «dell’apparato riproduttivo femminile» fatto di spazi angusti e strani tubicini, il desiderio di voler essere genitore perché si era in due, quei due, in quella storia. Non da soli, non diversamente, non per rispettare un ipotetico ed imposto “ciclo naturale della vita” ma perché quello “era” il momento giusto nella vita. Miguel e Giulia, Veronica e Camilla, Claudia e Francesco, sono i protagonisti del primo romanzo di Francesca Fornario. Nella mia sala d’aspetto (lì si conoscono i sei protagonisti) loro non c’erano e li rimpiango. Perché avrei condiviso “il piano”, la soluzione comune per fronteggiare tutto quello che c’era di sbagliato nelle leggi, nello Stato e persino in quella cultura che ti condanna perché ti scopre difettosa “secondo natura”.
Tre storie dense le sue, dove l’ironia, priva di qualsiasi crudeltà, ti trascina in momenti veri, vivi. «Non ho inventato molto rispetto alle storie delle persone che mi circondano», mi dice Francesca, quando le ho chiesto di incontrarci. «Ho solo aggiunto la mia lettura paradossale. Io tendo alla farsa per salvarmi la vita, rido per non piangere. Come se avessi un motorino dentro, che dall’ironia mi tira fuori la tenerezza, e sto bene». Ecco, questo libro ti porta in tutte le battaglie da fare. Da quella per il diritto alla “scienza” e ai suoi progressi (di Giulia che desidera un figlio da Miguel ma ha un’endometriosi grave che le impedisce di concepirlo), a quella per i diritti civili (di Veronica e Camilla che stanno insieme da dieci anni e vorrebbero ricorrere a una fecondazione eterologa o all’adozione ma in Italia nessuna legge glielo consente), fino a quella contro la precarietà. Una precarietà materiale che esaspera quella “normalmente” umana che ti spinge a cercare e a cambiare (di Claudia, studentessa di russo, fuori sede, che rimane incinta di Francesco nel momento sbagliato. Quello in cui deve realizzare mille altre cose, senza per questo doversi sentire sbagliata).

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È un libro sul desiderio di essere genitore perché si è in due, quei due, in quella storia. Non per rispettare un ipotetico e imposto “ciclo naturale della vita”

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Quello che è chiaro e forte dentro queste storie è cosa si intenda per vita, per umanità, per amore e persino per maternità. Che non deve seguire «nessuna assurda legge di natura», mi dice l’autrice. «Credo sia molto bello poter decidere e avere dalla nostra parte la scienza. Non siamo animali, e io non mi fido affatto di quello che fa la natura, perché fosse per lei se ti viene un cancro, muori. E invece noi abbiamo inventato i farmaci, la chemio e riusciamo a fregarla. Ecco, io tra la natura e l’uomo, tifo per l’uomo perché – con tutti i suoi limiti – ha lo sguardo più lungo». E infatti nel libro, vincoli biologici e legami di sangue non contano. Vale altro, insomma – l’adozione, la fecondazione eterologa, l’amicizia, l’affido -, perché l’importante è quel mondo di affetti in cui tutto è cimento.

«A un tratto Giulia realizza di essere un genitore senza figli», così scrivi del mio personaggio preferito. Quasi a dire che un figlio non è una semplice “riproduzione biologica” (che può venire o non venire), ma una realizzazione tutta interiore che addirittura si fa prima?
Sì. Giulia ha quarant’anni, è una storica dell’arte, e non si era mai immaginata madre. Poi arriva Miguel, questo chirurgo argentino che in Italia è costretto a fare il cameriere, e c’è lo scatto, il desiderio di avere figli insieme e i tentativi: eterologa, adozione…
Un figlio, quindi, come realizzazione di una capacità affettiva?
È molto più facile scrivere un romanzo dove si tradisce o si litiga, ma io volevo raccontare tutte coppie innamorate perché mi piaceva associare l’idea di genitorialità a questo sentimento per cui “insieme” ti senti in grado di affrontare questa svolta, con tutte le sue difficoltà.
«Decidere di non avere un figlio non è un reato». Lo dice il ginecologo a Claudia.
Per secoli ci è stato raccontato un unico modello di famiglia, quello dove la donna faceva i figli molto presto e possibilmente uno dopo l’altro. L’unica soluzione per me è la conoscenza, quella empatica. Bisogna entrare in empatia con gli altri e spero che il mio libro un po’ contribuisca, perché affezionandosi ai protagonisti che hanno un vissuto diverso da chi legge, magari passa la paura e ci si sente più vicini alla sorte di chi migra, di chi vuole fare un figlio a 40 anni perché a 20 non si sentiva pronto o aveva da fare altro.
«Promettimi che faremo un casino», dice invece Giulia a Miguel. Niente genitori modello: meglio genitori imperfetti?
A volte avere dei genitori imperfetti aiuta a crescere più liberi! Senza condizionamenti, senza l’ingombro di un modello da emulare. Non a caso ho dedicato il libro a mio padre…


 

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Chi è Francesca Fornario

Giornalista e autrice satirica. Su Radio2 lavora a Un giorno da pecora e conduce lo show satirico Mamma non mamma. Ha tra gli altri un contratto da attrice. La cosa è così surreale che ci tiene a farlo sapere.

La banda della culla è pubblicato da Einaudi.

 

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