Il 21 novembre, a Roma, la Fiom di Maurizio Landini torna in piazza. Una manifestazione che ha al centro il rinnovo del Contratto nazionale dei metalmeccanici, ma anche l’opposizione alle politiche del lavoro – e non solo del lavoro – del governo Renzi. Con le spalle forti di chi, da sei mesi, punta a un percorso collettivo con la Coalizione sociale, questa volta Landini trascina in piazza i metalmeccanici per rivendicare i diritti dell’intero mondo del lavoro. E alza il tiro con un nuovo Statuto dei lavoratori, di tutti i lavoratori, e gli imminenti referendum abrogativi. «Che la manifestazione della Fiom non sia solo un affare dei metalmeccanici dimostra che oggi, per ottenere determinati risultati, devi allargare la tua rappresentanza», il leader della Fiom ne è certo.
Una settimana dopo l’attacco terroristico a Parigi, l’Europa è ancora sotto shock e aumentano i controlli, sarete comunque in piazza sabato?
Certo. Non possiamo fermarci, dobbiamo manifestare per confermare i nostri valori, farli vivere e non arrenderci alla paura. La libertà, la solidarietà, la giustizia sociale e l’eguaglianza – i princìpi della nostra civiltà – si praticano ogni giorno. Questa è l’unica risposta che un’organizzazione sociale come il sindacato può dare alla barbarie, per dare un senso alla democrazia e riempirla di una partecipazione che non possiamo delegare agli Stati o alle autorità, chiudendoci in casa.
Avete fatto i conti con quella certa frustrazione che aleggia tra chi, generalmente, manifesta?
Nell’ultimo anno il contrasto alle politiche del governo c’è stato. Con gli scioperi e non solo, si pensi per esempio al movimento della scuola. È vero che nonostante la mancanza di consenso alle sue politiche, Renzi è andato avanti lo stesso. Come per dire che non gliene frega nulla e che non serve a nulla mobilitarsi. Quindi, sì, c’è stata anche frustrazione e ripartire non è facile. Ma penso che proprio perché il governo vuole utilizzare questa crisi per affermare un cambio radicale del sistema sociale e dei valori fondamentali – dell’eguaglianza e della giustizia sociale – è importante mettere al centro i contenuti, le idee, il progetto che noi tentiamo di affermare. Altrimenti c’è il rischio che la rivolta assuma terreni pericolosi come se il nemico fosse il diverso, il migrante, il povero…
Cosa chiedete?
Democrazia, cioè che tutti lavoratori possano votare sulle politiche del lavoro e certificazione della rappresentanza; una contrattazione annua del salario sulla base del modello tedesco; che i minimi salariali del Contratto non siano derogabili e diventino il riferimento legislativo per il salario minimo. E poi introduciamo qualche innovazione, come l’unificazione dei diritti di tutte le persone che lavorano dentro lo stesso luogo, a prescindere dal rapporto di lavoro che hanno: minimo salariale, limiti di orario e tutele su maternità, infortuni, malattie, ferie, Tfr… chiediamo anche che venga garantita la formazione, come diritto delle persone a essere formati.
Obiettivi audaci, pensate davvero di ottenerli? Con un governo che attacca i diritti del lavoro e la gran parte dei lavoratori che non conosce più i suoi stessi diritti?
Sono obiettivi importanti che non sarà facile ottenere. Il governo sta modificando i rapporti di forza, e le relazioni sindacali e industriali, attraverso interventi legislativi che non sono frutto di una contrattazione tra le parti ma una scelta fatta a tavolino. Davanti a questo, dobbiamo riformare il sindacato ponendoci un nuovo orizzonte che deve provare a rappresentare tutto il lavoro, compreso quello autonomo. La nuova frontiera deve essere uno Statuto dei diritti delle lavoratrice e dei lavoratori che riguardi tutte le forme di lavoro.
Ma il vuoto di rappresentanza ha indebolito anche il sindacato, oltre che i lavoratori. E il fatto che siano i metalmeccanici a farsi carico di tutto forse ne è una prova…
È un salto culturale necessario. Le iniziative sindacali classiche – manifestazioni, sciopero e contrattazione – si scontrano con questa frantumazione che impedisce di rappresentare tutti. E questo viene usato dal governo come una clava per cambiare l’intero quadro, anche a fronte di una debolezza del quadro politico che si è determinata. La nostra debolezza nasce proprio da questa frantumazione, divisione e incapacità di rappresentare tutti.
Un nuovo Statuto dei lavoratori si scontra con il Jobs act, serve un referendum abrogativo…
Sì, che vada a completare la nostra azione, accanto agli scioperi generali, alle manifestazioni e alle azioni contrattuali. Sapendo che questo vuol dire allargare la tua rappresentanza e la tua egemonia culturale, perché a votare non ci andranno solo i lavoratori dipendenti… Sarà necessario costruire un’alleanza vasta in grado di essere maggioranza nel Paese.
Continua sul numero 44 di Left in edicola dal 21 novembre
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