Quando il lavoratore è donna lo sfruttamento raddoppia. E alle condizioni disumane nei campi si aggiunge il ricatto sessuale. Navanpreet, Daljit e Mariana raccontano a Left il loro incubo

«Il padrone mi ha detto che dovevo lavorare alle sue condizioni o mi mandava via. E la mia famiglia solo coi soldi di mio marito non può vivere». Sembra l’incipit di una delle tante squallide storie di sfruttamento e ricatto nei confronti di lavoratori costretti ad accettare le condizioni imposte dall’imprenditore di turno. Invece è qualcosa di più. È il racconto dell’anima nera del Paese, che approfitta dei più poveri e fragili per fare profitto. Più sei un lavoratore debole, più “il padrone” sarà violento. Se poi sei donna e straniera la violenza diventa perversione. Così, oltre alle tue braccia, è il tuo corpo a essere a disposizione del dopo-lavoro del padrone. «Io non ho capito subito, non sono abituata. Per noi il rispetto è tutto. Il padrone invece mi ha detto che dovevo accettare la sua proposta, altrimenti andavo a lavorare nel campo con gli uomini oppure restavo a casa». Sono le parole di una donna migrante di circa 35 anni, in Italia da quasi tre. La chiameremo Navanpreet, nome di fantasia. Vive in provincia di Latina, tra le dune dorate di Sabaudia, i monti Lepini e il mare di Terracina. È arrivata in Italia regolarmente dopo essersi sposata a Chandigarh, città progettata da Le Corbusier e capitale dello Stato del Punjab, regione nord-occidentale dell’India. Navanpreet ha occhi grandi e neri, un abito giallo sgargiante finemente ricamato e una sciarpa dello stesso colore che tiene delicatamente tra le mani. Prima di parlare, come da tradizione sikh, religione indiana votata all’accoglienza e al rispetto, ci offre da mangiare e da bere nella sua sala da pranzo.

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Biscotti, aranciata e chai arrivano in quantità. Il chai è la loro bevanda tipica, un tè speziato offerto agli ospiti in segno di buona educazione. Il marito la osserva e sorride a ogni suo sorriso. Le è seduto accanto e proprio alle sue spalle c’è la foto di Guru Nanak, mistico indiano e fondatore del sikhismo nel XV secolo, inghirlandata con una collana di fiori arancioni. Il marito lavora in un’azienda agricola di Latina. Si alza ogni mattina alle quattro e raggiunge il suo posto di lavoro dove guadagna quattro euro l’ora, a dispetto del contratto provinciale che ne prevede circa nove lordi. Il loro sguardo si incrocia spesso, quasi a sostenersi a vicenda. La loro dignità ricorda quella dei nostri nonni nelle foto in bianco e nero di molti anni fa. Mancano i lunghi baffi, le giacche e le cravatte dei primi anni del Novecento. Il resto è identico. «Non conosco ancora bene l’italiano e quindi non ho capito subito cosa intendesse il padrone». Padrone è il termine con il quale alcuni imprenditori agricoli pontini si fanno chiamare dai braccianti indiani. Le condizioni che impongono ai lavoratori sono comuni a molte aziende agricole italiane: si lavora anche dodici ore al giorno per duecento euro circa a settimana.


La loro dignità ricorda quella dei nostri nonni nelle foto in bianco e nero di molti anni fa. Mancano i lunghi baffi, le giacche e le cravatte dei primi anni del Novecento. Il resto è identico


 

Il sabato si lavora tutto il giorno e anche la domenica mattina. Se capiti sotto caporale, italiano o straniero, è lui che comanda: ti dice se venire o meno a lavorare, quanto percepirai e se ti viene rinnovato il contratto di lavoro oppure no. Fatiche fisiche e psicologiche che – come ha documentato l’associazione In Migrazione – inducono i braccianti, spesso, a fare uso di sostanze dopanti. Ma questa, dicevamo, non è una storia di solo sfruttamento lavorativo. È la volgarizzazione di un rapporto sbilanciato di potere che vede all’apice il capo e alla base le lavoratrici. «Il padrone continuava a dirmi che poteva portarmi a casa con la sua auto e che dovevo accettare se volevo continuare a lavorare. Ma io sono sposata – dice Navanpreet con voce sommessa, guardando il marito e tradendo un comprensibile imbarazzo – e non ho mai accettato. Il padrone mi ha punito: ora lavoro in campo aperto e anche la domenica mattina. Prima non era così. Altre indiane e anche rumene, invece, sono andate col padrone. Loro adesso lavorano con un contratto regolare. Prendono cinque o sei euro l’ora mentre io solo tre. Però va bene così». (…)


 

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