Nel suo nuovo libro l'economista di Berkeley spiega le diseguaglianze crescenti prendendosela con il potere dei monopoli e la politica che li asseconda. E propone alcune ricette, che anche il Nobel Paul Krugman trova assennate

Sugli scaffali delle librerie americane (e online) chiunque voglia può comprare Saving Capitalism, ultimo lavoro di Robert Reich, professore di economia a Berkeley, già Segretario del lavoro per due anni con Clinton (che poi svoltò a destra) e oggi figura di punta della critica radicale ma istituzionale al sistema in cui viviamo. Reich oggi scrive, lavora con campagne importanti ed è una delle voci autorevoli e non convenzionali della sinistra liberal americana. Ha scritto libri importanti che mischiano accademia e divulgazione e proposta e aiutano a capire bene come e quanto sia cambiato il modello americano. Reich è molto america-centrico, ma la sua lettura dei fenomeni aiuta almeno in parte a capire anche come stiamo noi. In fondo quello degli anni tra il New Deal e il 1980 è stato un compromesso sociale tra capitale e lavoro, per quanto sui generis e con meno Stato, come quello che scricchiola e traballa da decenni in Europa e che oggi sembra – a meno di non essere ripensato, atualizzato e reinventato – destinato a essere lasciato da parte.

Sulla New York Review of Books, Paul Krugman scrive una recensione di Saving Capitalism che naturalmente ci dice anche cose su cosa pensi il premio Nobel e professore a Princeton della fase attuale.

«Work of Nations era in qualche modo un lavoro innovativo, perché si concentrava sulla questione della disuguaglianza crescente -un problema che alcuni economisti, me compreso, stavano già prendendo sul serio – scrive Krugman – ma che non era ancora centrale nel discorso politico. Il libro di Reich guardava alla disuguaglianza in gran parte come un problema tecnico che aveva una soluzione tecnocratica dalla quale tutti avevano da guadagnare. Tempi andati. Nel suo nuovo libro Reich offre una visione molto più oscura della realtà, e fa ciò che è a tutti gli effetti un invito alla lotta di classe, o, se preferite, a una rivolta dei lavoratori contro la guerra di classe silenziosa che l’oligarchia americana sta conducendo da decenni».

Cosa succede tra la scrittura del primo e del secondo libro di Reich, si chiede Krugman? Da un lato cambia il discorso generale della politica americana, dall’altro si osserva un fenomeno che è quello della crescente distanza tra i salari di chi ha frequentato l’università e chi no. Come si spiega questo distacco? Si è detto che la colpa fosse della globalizzazione che portava le fabbriche all’estero (ergo i pochi operai non specializzati che rimanevano erano destinati a competere con i cinesi sul salario per lavorare), ma scrive ancora Krugman, quando il fenomeno è cominciato la quantità di stabilimenti in fuga era ancora minima. Poi si è data la colpa alla tecnologia: le macchine fanno più lavoro che prima facevano umani senza laurea, il lavoro si concettualizza e chi non ha studiato resta indietro. La risposta possibile, contenuta in The Work of Nations, era: dotiamo di strumenti più persone e l’economia aprirà nuove opportunità. Si trattava, insomma, di aumentare il bagaglio del lavoratore medio. Teoria molto anni 90, opportunità e se vogliamo, molto terza via clintonian-blairiana. Non funzionò: dopo il 2000 anche i salari di alcune categorie istruite cominciarono a perdere terreno, quelli dei manager a salire a dismisura e le imprese smisero di investire in innovazione e cominciarono a mettere i loro soldi in Borsa o in altre attività.

Che spiegazione nuova troviamo nel libro di Reich? La prima si chiama un crescente aumento del potere di mercato di attori monopolistici od oligopolistici di fissare il prezzo a cui comprano o vendono merci e lavoro. Krugman ricorda come ci sia stata una lunga fase in cui nella teoria economica e in politica, l’idea che il potere dei monopoli fosse tutto sommato ininfluente sia stata prevalente per qualche decennio grazie a un saggio di Milton Friedman, che con i suoi colleghi di Chiacago ha influenzato la politica economica degli ultimi 30 anni.

Reich, ci racconta Krugman, fa buoni esempi di come il monopolio sia in realtà un danno per la competizione, oltre che per i consumatori. L’esempio scelto tra gli altri è quello delle connessioni internet, che negli Usa (a differenza di come si potrebbe immaginare) non sono particolarmente veloci e sono piuttosto care – come anche la telefonia cellulare. Il motivo? La scarsa concorrenza. Citando una serie di studi recenti – tra cui quello di Peter Orszag, ex direttore del Congressional Budget Office – che mostrano come il crescente potere dei monopoli si manifesti anche nei profitti di un numero crescente di imprese, che non scendono, proprio perché non incalzati da concorrenti.

Del resto, spiega Reich, se io guadagno molto vendendo un servizio internet scadente e non sono incalzato da un avversario che ne vende uno migliore, perché dovrei spendere soldi per piazzare fibra, antenne o perdere profitti abbasando i prezzi al consumo? Nella sua recensione Krugman sottolinea come

«concentrandosi sul potere di mercato aiuti a spiegare perché la grande svolta nella disuguaglianza dei redditi coincida con i cambiamenti politici, in particolare la brusca svolta a destra nella politica americana. Che il livello di potere di mercato delle imprese è, in gran parte, determinato da decisioni politiche».

E così, nella politica americana (e non solo) il potere politico può a volte essere funzione del monopolio, che ringrazia e lo alimenta. E così deregolamentazione, attacco alle leggi sindacali, riduzione dei controlli e limiti ai monopoli sono frutto di scelte politiche che hanno contribuito a ridisegnare il campo da gioco nel quale imprese e lavoratori giocano.

Cambiare le regole e tornare a un mercato che somigli di più a quello in cui c’è concorrenza, e lo Stato regole per il bene di tutti è la scelta da fare per “salvare il capitalismo”, sostiene Reich. Krugman, che concorda con le ricette politiche proposte in Saving Capitalism, è meno convinto. Reich propone di aumentare i salari minimi – cosa che molti Stati Usa hanno fatto senza conseguenze negative per il merato del lavoro, anche in anni come questi non stupefacenti dal punto di vista della crescita – restituire ruolo ai sindacati, aumentare il potere di lavoratori e consumatori in materia di contratti (impedire insomma, alle imprese che ti raggirano come lavoratore o consumatore dei loro beni, di farlo….pensate ai vostri litigi disperati con le compagnie telefoniche). Infine occorre fare in modo che le corporations la smettano di rispondere soli agli azionisti – che chiedono risultati finanziari a breve termine.

Può funzionare? Nel New Deal, scrive Krugman, funzionò. E il fatto che le prossime elezioni presidenziali Usa vedano molti candidati, anche quelli di destra, giocare con l’antipolitica e il populismo che se la prende con i potenti e l’1%, secondo Reich è un buon segno. Guardate Hillary Clinton – questo Reich non lo scrive – ha posizioni infinitamente più a sinistra di se stessa 20 anni fa. E Sanders ha un successo inaspettato. Segno che il vento, dopo 30 anni di monetarismo, neoliberismo e deregolamentazione e a otto anni dalla Grande recessione sta cambiando. Può darsi: in fondo anche il New Deal è cominciato ben 4 anni dopo il crollo delle Borse. Gli Usa e l’Europa contemporanei ci stanno mettendo di più (e a dire il vero l’Europa presenta altre analogie inquietanti con gli anni ’30), ma dovremmo augurarci che Reich abbia ragione.

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