Il salvataggio di quattro piccole banche contrasta con le linee guida europee che chiedono ad azionisti e grandi correntisti di pagare per gli istituti in difficoltà. Con un colpo di mano il governo usa il fondo di risoluzione - che dovrebbe servire per le banche troppo grandi per fallire - e fa pagare alle piccole banche, aumentando la quota dovuta. La critica della finanza etica

Un pasticcio incredibile. Si potrebbe riassumere così il salvataggio di quattro banche in difficoltà: CariFerrara, Banca Etruria, Banca Marche e CariChieti. Proviamo a riassumere. Negli ultimi anni gli Stati hanno dovuto salvare le banche in crisi. Un processo chiamato “bail-out” e duramente criticato perché di fatto si socializzano le perdite dopo avere privatizzato i profitti, esasperando il cosiddetto azzardo morale: mi prendo sempre più rischi, se mi va bene mi tengo il malloppo, se va male arriva il paracadute pubblico.

Per questo dal 1 gennaio 2016 entrerà in vigore anche in Italia la nuova normativa europea che prevede il bail-in: in caso di crisi, le risorse dovranno arrivare dall’interno della stessa banca: prima gli azionisti, poi i detentori di obbligazioni, e in ultimo eventualmente da chi ha un conto corrente con più di 100.000 euro. La speranza è che con il bail-in i piccoli risparmiatori saranno spinti a informarsi e a esercitare un controllo maggiore sulle banche. Oggi non hanno nessun controllo o influenza sui top manager che prendono le decisioni, e spesso non sanno nemmeno di detenere una data azione o obbligazione.

Peccato che ancora prima che le nuove regole entrino in vigore, il governo decida di intervenire con un consiglio dei ministri domenicale che vara in tutta fretta un decreto secondo il quale è invece il sistema bancario italiano nel suo insieme a doversi fare carico del salvataggio dei quattro istituti oggi in difficoltà. Un intervento di emergenza dopo mesi di scambi di opinioni, mezze frasi e mezze interpretazioni dell’Unione Europea, senza che si riuscisse a capire in quale direzione andare, se si stessero infrangendo delle regole e quali regole fossero in vigore.

Se la situazione vi sembra poco chiara, non è ancora nulla. Con il decreto “salva-banche” si decide di attingere al fondo di risoluzione, un fondo che dovrebbe servire per le banche cosiddette “sistemiche”, ovvero quelle di maggiore dimensione che rischiano di contagiare l’intero sistema in caso di fallimento. Le quattro banche in difficoltà molto probabilmente non sono “sistemiche”, e quindi non dovrebbero accedere a questo particolare meccanismo di salvataggio. Tutto al condizionale, perché tra l’altro il fondo di risoluzione è ancora in costituzione ai sensi di una Direttiva europea che ancora non è in vigore in Italia. Non solo. Si chiede di colpo alle banche di versare in questo fondo molto di più di quanto era stato già previsto e comunicato. Ciliegina sulla torta: anche le banche di piccole dimensioni, “non sistemiche” e che non potranno quindi accedere al fondo di risoluzione, sono però chiamate ad alimentarlo, con contributi variabili e imprevedibili, per intervenire da subito con una normativa che verrà recepita in Italia unicamente dal 1 gennaio del 2016.

A Banca Etica era stato richiesto un contributo al fondo di risoluzione di 130.000 euro sia per il 2015 sia per il 2016. Il totale di colpo potrebbe essere tre volte più alto, forse sfiorare il milione di euro in due anni. Risorse che andranno a ridurre gli utili di una banca che, in quanto banca cooperativa, li destina a riserva e al proprio patrimonio. Ogni euro in meno significa 12 euro in meno di credito erogabile alla clientela. In parole povere, c’è una cinghia di trasmissione diretta tra il decreto salva-banche e la possibilità di Banca Etica di erogare più credito al sistema economico di riferimento, al terzo settore, alle rinnovabili, al commercio equo.

Una situazione kafkiana, in cui viene penalizzata la finanza etica, che non solo non ha avuto bisogno di salvataggi pubblici, ma che da anni denuncia gli eccessi e la follia dell’attuale sistema finanziario. Proprio da qui si dovrebbe ripartire. Nel pasticcio del salva-banche, rimane una questione di fondo: perché si interviene unicamente a valle? Tutta l’attenzione è concentrata su cosa fare in caso di fallimenti e disastri, mentre su come prevenirli si va avanti con il freno a mano tirato. Che fine ha fatto la separazione tra banche commerciali e di investimento, che limiterebbe drasticamente la necessità di salvataggi? Dov’è l’Europa sulla regolamentazione del sistema bancario ombra o sui derivati? Servono interventi ex-ante, non ex-post. Discutiamo pure di come raccogliere i cocci al prossimo disastro finanziario, ma sarebbe il caso di evitare che tali disastri si ripetano con una tale frequenza.

Ancora prima, è inammissibile che il peso dei salvataggi ricada, con provvedimenti della domenica senza né capo né coda e cambiando le regole in corsa, su chi negli anni peggiori della crisi ha continuato ad ampliare l’erogazione del credito e il sostegno all’economia, alle imprese sociali e alle famiglie. Settori della società che rischiano per l’ennesima volta di rimanere con il cerino in mano per l’irresponsabilità del mondo finanziario e per l’incapacità di quello politico.

*Presidente della Fondazione Culturale Responsabilità Etica