Le prospettive di vita democratica del Paese sono buie, dopo l’uccisione dell’avvocato Tahir Elçi, simbolo della pace e della causa curda. Ma l’Ue verserà 3 miliardi nelle casse turche

Sabato 28 novembre, Istanbul. Sembra una giornata come le altre sul metrobus che attraversa il secondo ponte sul Bosforo. Tra gli sguardi distratti della gente, un uomo appoggiato alla porta scorre il feed del suo profilo facebook. Un post su due si riferisce all’assassinio di Tahir Elçi, presidente dell’ordine degli avvocati di Diyarbakir, ammazzato da un colpo al capo in uno scontro a fuoco nel quartiere di Sur, subito dopo una conferenza stampa. I commenti di disperazione e rammarico si alternano ai video condivisi delle concitate e confuse scene dell’assassinio. «È una tragedia immensa. Un incubo senza fine», racconta Dimen, originario del Kurdistan turco, ma di casa a Istanbul da circa vent’anni: «Tahir Elçi era un uomo che voleva la pace, che lavorava per la pace. La sua morte fa male a tutti noi». Dimen osserva a lungo le immagini del volto di Tahir e quando lentamente mette un “mi piace”, sembra che il suo cuore si stia spaccando in due. Qualche ora dopo, davanti al Galatasaray Lisesi a Istiklal street, a pochi passi da piazza Taksim, qualche centinaio di persone si radunano per protestare indignati contro l’assassinio dell’avvocato, considerato uno dei personaggi più importanti nella difesa dei diritti dei cittadini. Ma la protesta dura ben poco. La polizia reagisce subito, sparando lacrimogeni e azionando gli idranti contro i manifestanti e i passanti. Non c’è confronto tra le forze dell’ordine e la folla e la dimostrazione finisce in quel momento. Il giorno successivo saranno in decine di migliaia le persone ad assistere in cordoglio a Diyarbakir al funerale dell’avvocato ucciso.
Tahir Elçi, nativo di Cizre, città curda al confine tra Turchia, Siria e Iraq, aveva “osato” affermare durante una trasmissione televisiva della Cnn turca del 14 ottobre, che il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), bersaglio numero uno della “lotta al terrorismo” del presidente della Repubblica turca Erdogan, non fosse da considerare un’organizzazione terrorista, bensì un’organizzazione politica armata, sostenuta da gran parte del popolo curdo. Affermazioni piuttosto pesanti in un Paese che da mesi sta flirtando con Daesh pur affermando di combatterlo, per indebolire e se possibilmente annientare la resistenza curda, anche a costo di attizzare un conflitto che sta assumendo una scala sempre più globale. A caldo, Erdogan ha commentato che «questo incidente mostra quanto sia sensato l’impegno turco nella lotta al terrorismo». Il leader dell’Hdp Selahattin Demirta, partito della sinistra filo-curda, scampato lui stesso a un attentato nella notte del 22 novembre scorso, non ha esitato a parlare invece di “delitto politico”. Il fratello di Tahir, Ahmet Elçi, ha affermato senza giri di parole che il fratello «come intellettuale curdo è stato eliminato dallo Stato». Di fatto, sono già centinaia le vittime della guerra a bassa intensità ripresa dal governo nel Kurdistan turco da giugno a questa parte e in diverse cittadine curde vige ancora il coprifuoco. (…)


 

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