Questa storia può iniziare dal nordest della Capitale, in bicicletta sulla riva sinistra del Tevere, dove sbocca l’Aniene quasi invisibile, per chi non abbia voglia di cercare la città nascosta dal cemento. «Alla velocità dei pedali – per dirla con Andrea Satta dei Têtes de bois – tutto è più reale, se vuoi conoscere il mondo, dal malessere alla meraviglia». Ora ci vuole un po’ di immaginazione: su quella riva c’era un posto di guardia, una notte nebbiosa di ottobre del 1867, i fratelli Cairoli vi sorpresero tre gendarmi pontifici e lasciarono passare così i fucili per Garibaldi verso Ponte Milvio, poi nascosti a Villa Glori (Claudio Fracassi, La ribelle e il Papa Re, Mursia 2009).
La faccenda finì malissimo, come diciotto anni prima era finita la Repubblica Romana. «Ma quando i sogni sono belli, i vinti diventano più importanti dei vincitori», come ci insegna Marco Baliani. Nei suoi cinque mesi di vita, la Repubblica trasformò Roma, una delle capitali più reazionarie d’Europa in un laboratorio di democrazia. L’assemblea costituente nazionalizzò i beni ecclesiastici, 120 milioni di scudi dell’epoca. Poi abolì il Tribunale del Sant’Uffizio, la giurisdizione della Chiesa su università e scuole, la censura. Istituì il matrimonio civile. Stabilì che le donne potessero godere della successione ereditaria e distribuì la terra ai contadini. A piazza della Minerva, la sede del tribunale dell’Inquisizione venne trasformata in abitazioni per le famiglie bisognose.
Era, ed è, il sogno di una Roma senza papa che aveva preso corpo nel Rinascimento, con le pasquinate e i libelli famosi, e prosegue fino ai giorni nostri con le marce No Vat del decennio scorso. Senza papa e quindi anche «senza paternostri e giubilei» (pensateci se passerete sotto casa di Ciceruacchio, in via Ripetta 248) e, per estensione, senza grandi eventi. Secondo un ex consulente del governo inglese, Greg Clark, già solo presentare una candidatura è motore di sviluppo e occasione di governance, incentivazione del mercato immobiliare e dell’infrastruttura delle regione, cemento verticale e orizzontale. Altre costruzioni e altre autostrade. Quarant’anni fa, la denuncia dei legami “diabolici” fra Chiesa, palazzinari e Dc in occasione dell’anno santo del ’75, costò il posto da abate a Giovanni Franzoni. Nella basilica di San Paolo fuori le mura, si sentivano “orazioni” per ottenere la “conversione” delle strutture ecclesiastiche oppressive o colluse con i potenti. Troppo, decisamente, per le gerarchie di Oltretevere e anche per i fascisti, che compirono irruzioni violente in basilica e fecero scritte sui muri («Franzoni giuda al rogo») nel quartiere dove ancora oggi opera la comunità cristiana di base, non lontano da periferie ancora più dilatate di allora dalla speculazione, con la natura (la “Terra di Dio”) più inquinata e violentata dalla “crescita economica”. A meno di un chilometro da qui c’è il cimitero acattolico, all’ombra della Piramide. I papi vietavano di seppellire i miscredenti in terra consacrata. Qui riposano, tra le altre, le ceneri di Gramsci. Labriola, Gregory Corso e dell’altro poeta Dario Bellezza. Oscar Wilde pensava che fosse «il luogo più sacro della terra».
Ma voi siete in bicicletta e io faccio “filosofia”! Se ricordo bene vi ho lasciato ai piedi della collina dei Parioli. Bene, proseguite fino al Quartiere Prati: toponomastica dedicata a eretici, poeti pagani, ai rivoluzionari romani, ai capitani militari contro la chiesa. A Piazza Cavour l’unica chiesa presente è quella valdese. Tutto si snoda come ad assediare il Vaticano sino al Palazzaccio, bruttissimo ma costruito per oscurare San Pietro dal Pincio. Il sindaco di allora era Ernesto Nathan, ebreo di origini anglo-italiane, cosmopolita, repubblicano nella linea di Mazzini e Saffi, massone, laico e anticlericale. Fu il primo sindaco di Roma estraneo alla classe di proprietari terrieri che aveva governato la città fino al 1907. Allora, il 55% delle aree edificabili era in mano a soli otto grandi proprietari.
Caspita, siete già sul Lungotevere! Ora scendete, andate a piedi: tutto ciò aumenta la consapevolezza delle proprie sensazioni. Ogni viaggio si compie in compagnia di amici vivi, amori finiti o compagni illustri. Nel nostro caso non c’è che l’imbarazzo della scelta: accanto a Giordano Bruno in Campo de’ Fiori potrebbe esserci Enrico Ferola, il fabbro di via della Pelliccia 40, a Trastevere, che fabbricava i chiodi a quattro punte, utilissimi a bloccare i mezzi dei nazi nell’occupazione di Roma. Oppure Righetto, dodicenne trasteverino, che si gettava con uno straccio sulle bombe francesi per smorzarne la miccia e rispedirle al mittente. Perché no, Giorgiana Masi, diciott’anni, che era andata a festeggiare l’anniversario della vittoria divorzista al referendum ma fu uccisa dalla polizia di Cossiga su ponte Garibaldi.
Immaginatevi delle barricate a via del Corso, lì dove non riuscirono a issarle gli studenti il 12 dicembre del 2010. Le issarono, invece, i repubblicani di Roma utilizzando i confessionali di San Carlo al Corso e di San Lorenzo in Lucina. Mazzini si rifugiava non lontano da lì, nella soffitta di Piazza di Pietra, nella casa di Gustavo Modena, il più grande attore italiano dell’800 che utilizzava gli incassi degli spettacoli per finanziare la ribellione. Se salirete fino al Gianicolo, in cerca degli echi della battaglia, portatevi un libro: Roma senza papa di Riccardo Cochetti (Ensemble 2015, con un cd) oppure La meravigliosa storia della repubblica dei briganti di Claudio Fracassi (Mursia, 2005), o le cronache in presa diretta di Margaret Fuller.
Insomma, credete sia possibile ritrovare le tracce di quella che fu “una città ribelle e mai domata” ma oggi somiglia a quella più depressa che vide quattromila camicie rosse uscire da Porta San Giovanni dopo la disfatta della Repubblica? (…)
L’articolo completo sull numero 47 di Left in edicola dal 5 dicembre