Con la scrittrice parliamo del suo ultimo romanzo, Chirù, il suo lavoro più politico, storia di un'insegnante di vita e di un suo allievo. Una storia sulla potenza e i pericoli delle relazioni.

Piccolo suggerimento. Questo pezzo va letto ascoltando il tema di The Truman show, con i suoni minimali di Philip Glass nelle orecchie. Perché solo da quelli – scopriamo – si fa accompagnare Michela Murgia quando scrive. «Non potrei ascoltare altro», mi racconta. Pena, la distrazione. Non potrebbe ascoltare Mozart, ad esempio, «troppo complesso», che pure è finito nelle pagine del suo ultimo libro Chirú. Meglio i suoni ipnotici e sincopati di Glass, dunque, per dare forma alla storia.

E le opere di Mozart, invece, vanno bene come citazione: «In un libro sul potere nelle relazioni, come è Chirú», mi dice Michela Murgia mentre si sposta tra una presentazione e l’altra, «Mozart, e anzi Lorenzo Da Ponte, sono dei fondamentali». Non possono mancare. «Il modo in cui indagano e raccontano le relazioni Mozart e Da Ponte, non lo ritrovi in Rossini, non lo ritrovi in Puccini», dice Murgia, «lo ritrovi nella loro trilogia, però, dove non ci sono Norme che si immolano, né Tosche che si buttano da Castel Sant’Angelo. Non muore nessuna donna, con Da Ponte, e si celebra invece un equilibrio tra i sessi».

Eleonora, la protagonista del romanzo, attrice compiuta, lo spiega così a Chirú, giovane e acerbo violinista, in cerca di un maestro di vita. Davanti a sé ha l’allievo e Luca, un collega di Conservatorio del protetto, che si lamentano di quanto siano complicate le donne, banalmente, senza fantasia, e di quanto sarebbe utile «un libretto di istruzioni»: «Il libretto di istruzioni lo avete. È Mozart», dice Eleonora. «O meglio, Lorenzo Da Ponte. Un prete che ha scopato quanto voi nella vita potrete solo sognare, e vi ha fatto il favore di spiegarvi quello che ha capito, che peraltro non è poco. Praticamente tutte le sue opere investono il mistero dei rapporti tra uomini e donne: fedeltà e tradimento, desiderio e dovere, vendetta e perdono… È il vostro santo protettore, dovreste portargli eterna riconoscenza». Si canta così l’aria di Despina di Così fan tutte, a pagina 85 di Chirú. È una delle lezioni che Eleonora impartisce allo scolaro.

Poche ore prima di chiamare Michela Murgia per questa intervista, caso ha voluto che recuperassi la visione di Whiplash (il premiato film di Damien Chazelle, 2014, tre Oscar). L’ho visto in colpevole ritardo, lo so. Ma è stato meglio così, perché Chirú e Whiplash – ho subito pensato – hanno in comune due cose: la musica – ed ecco perché ho chiesto a Michela Murgia cosa e se ascoltasse qualcosa, scrivendo – e la volontà di raccontare un rapporto di formazione. Quello tra un giovane batterista e un brusco direttore di orchestra jazz, per il film americano, quello tra l’aspirante violista con la più matura attrice, coltissima, nel romanzo della sarda Murgia.


 

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Sono nato a Roma, il 23 febbraio 1988. Vorrei vivere in Umbria, ma temo dovrò attendere la pensione. Nell'attesa mi sposto in bicicletta e indosso prevalentemente cravatte cucite da me. Per lavoro scrivo, soprattutto di politica (all'inizio inizio per il Riformista e gli Altri, poi per Pubblico, infine per l'Espresso e per Left) e quando capita di cultura. Ho anche fatto un po' di radio e di televisione. Per Castelvecchi ho scritto un libro, con il collega Matteo Marchetti, su Enrico Letta, lo zio Gianni e le larghe intese (anzi, "Le potenti intese", come avevamo azzardato nel titolo): per questo lavoro non siamo mai stati pagati, nonostante il contratto dicesse il contrario.