L’usignolo ha amato la musica e gli uomini. Ed è stata una donna generosa, al contrario di tanti Vip di oggi che se ne infischiano dei giovani artisti. Lei invece li aiutava ad emergere in tempi difficili. E aveva una voce potente, che le veniva da dentro. Ci sono tanti motivi per ricordare Edith Piaf – detta l’usignolo o passerotto – una vita di corsa tra amori più o meno fortunati e una serie infinita di bellissime canzoni. Era nata a Parigi il 19 dicembre 1915.
Oggi probabilmente i social saranno inondati di meme e di ricordi di rito. Ma nel caso di Edith Piaf si tratta davvero di una vita che vale la pena di essere raccontata. La sua è una storia di coraggio, di arte e di vita vissuta fino in fondo. Dove si trovano oggi questi tre elementi fusi in un’unica persona? Edith era una che in Je ne regrette rien cantava:
No, niente di niente!
No, non rimpiango niente!
È stato tutto saldato, spazzato via, dimenticato.
Me ne fotto del passato.
Coi miei ricordi,
innesco la fiamma,
i miei dispiaceri ed i miei piaceri,
non ho più bisogno di essi.
Rimossi gli amori
e tutti i loro tremoli,
dimenticati per sempre.
Riparto da zero.
Edith era piccola e magra, con occhi sognanti e quelle sopracciglie fin troppo disegnate come andavano negli anni Trenta. Era nata poverissima, da una famiglia di artisti di strada. Il padre faceva il contorsionista e spesso lei, fin da quando aveva otto anni cantava in strada mentre lui si esibiva nei suoi numeri. Anche la madre era un’artista, una cantante. Un’infanzia disastrata tra nonne sui generis – una un po’ fuori di testa, l’altra, tenutaria di un bordello -. Poi l’incontro con un impresario, Louis Leplé, che si accorse subito di quella voce potente e comunque flessibile come il corpo esile della ragazza. Poi un altro incontro ancora importante: quello con Raymon Asso, poeta e impresario che le scrisse anche delle belle canzoni. Siamo negli anni prima della seconda guerra mondiale e a Parigi non arriva ancora il vento mefitico delle dittature che in quel momento stanno minando le fondamenta democratiche dell’Europa. A Parigi, a sentirla, accorrono personaggi come Maurice Chevalier, Jean Cocteau, che rimarrà legato a lei per tutta la vita. Nel ’44 ha una breve storia d’amore con un giovane cantante di origine italiana Ivo Livi, in arte Yves Montand. Con lui registra una canzone C’est merveileux. Comunque è lei, Edith, a far conoscere Yves Montand e farlo arrivare al successo. Alla fine della guerra scrive lei stessa una canzone: sarà quella che diventerà un simbolo della rinascita e anche un modo di dire. La vie en rose, appunto.
Etoile sans lumiere, 1946, unico film in cui Piaf e Montand compaiono assieme
Podo dopo arriva la tragedia. Nel 1948 aveva conosciuto un pugile, Marcel Cerdan, se ne innamora alla follia ma dopo un anno lui muore in un incidente aereo. Edith avrà una crisi profondissima, tra morfina e una malattia che cominciò a manifestarsi, l’artrite reumatoide.
Fino agli anni 60 (è morta nel 1963) fu l’artista simbolo della Rive Gauche, degli artisti che in qualche modo testimoniavano una ribellione o un malessere rispetto alla società normalizzata. Edith Piaf continua ad aiutare giovani artisti e così incontriamo Georges Moustaki, Charles Aznavour, Gilbert Becaud, Leo Ferrè. Moustaki scriverà nel 1958 per lei le parole della canzone Milord, un altro bellissimo brano. La storia di una ragazza del porto, che invita un ricco signore a sedersi accanto a lei e a mettersi comodo. E’ la poetica di Moustaki, lo “straniero” per eccellenza. E’ anche la poetica del tempo, verrebbe da dire, in cui le convenzioni venivano scardinate e in cui il coraggio di fare delle scelte era presente e tangibile.
Edith Piaf: una donna generosa, dal grande fascino, elegante nei suoi abiti neri sul palcoscenico mentre veniva illuminata da un sottile fascio di luce. Con la sua voce dava forma alle parole e il pubblico rimaneva soggiogato dalla sua forza. Un usignolo forte come un’aquila.