«Sono stata fortunata. Mi hanno solo picchiata e derubata, ad altre è andata peggio». Esraa, non più di trent’anni in fuga dalle bombe che in Siria cadono come fosse pioggia, racconta così il suo viaggio verso l’Europa. Un viaggio che per gli uomini è pieno di insidie e pericoli, e che per le donne lo è ancor di più. Le migranti infatti lungo tutto il percorso richiano la vita e finiscono per subire abusi, molestie sessuali e violenze. Le più fortunate come Esraa vengono “solo” picchiate e derubate. Strana idea di fortuna quella a cui costringe a pensare questo viaggio. Nemmeno arrivate a varcare il confine europeo ci si può sentire al sicuro, Europa in questo caso non è sinonimo né di diritti né di civiltà, anzi, a volte le molestie vengono proprio da chi quell’idea di Civiltà la dovrebbe difendere: uomini in divisa e poliziotti di frontiera per esempio.
Non esistono ancora statistiche ufficiali che possano fornire dei numeri esatti sul fenomeno, ma secondo una nuova ricerca di Amnesty International, sono davvero troppe le donne e le ragazze rifugiate vanno incontro a violenze, aggressioni, sfruttamento e molestie sessuali in ogni fase del loro viaggio. L’organizzazione per i diritti umani chiama in causa anche i governi (europei e non) e le agenzie umanitarie che non forniscono la minima protezione alle donne in fuga da Siria e Iraq.
Al tema il New York Times ha dedicato un reportage e alcune di quelle storie ve le abbiamo raccontate qui, riflettendo su quello che è successo a Colonia e cercando di ampliare la prospettiva al genere, piuttosto che alla nazionalità. Il lavoro di Amnesty International conferma quanto denunciato dall’autorevole quotidiano statunitense. Lo staff dell’organizzazione no profit infatti, solo nell’ultimo mese, ha incontrato fra la Germania e la Norvegia circa 40 donne e ragazze rifugiate, che, al termine di un viaggio che dalla Turchia le aveva portate in Grecia ed era proseguito lungo la “rotta balcanica”, hanno deciso di raccontare la loro storia. A parlare sono gli sguardi, le minacce, quell’insicurezza che tappa dopo tappa le ha avvolte nella paura, nella convinzione che in quanto donne non potevano permettersi il lusso di fidarsi di qualcuno. Molte di loro hanno denunciato che, in quasi tutti i paesi attraversati, hanno subito violenza fisica e sono state sfruttate economicamente, molestate o costrette ad avere rapporti sessuali coi trafficanti, col personale di sicurezza o con altri rifugiati. Oumaya, 22 anni irachena, racconta che in Germania – nella civilissima Germania – una guardia di sicurezza in divisa le ha offerto dei vestiti in cambio di «un po’ di tempo sola con lui». Oumaya è un nome di fantasia, come quello che molte donne usano quando scelgono di parlare di ciò che hanno dovuto subire. Un nome di fantasia necessario per raccontare una storia vera di cui si ha ancora troppa paura. Una storia che pur variando nelle piccole sfaccettature, è comune a moltissime donne.
Hala, ha 23 anni, è partita da Aleppo in Siria spiega che il viaggio è rischioso e lo è ancor di più per chi viaggia sola o non ha i soldi per pagare, perché «sei una preda facile, sei ricattabile. In un albergo della Turchia, un siriano al servizio dei trafficanti mi ha proposto di passare la notte con lui. Mi diceva che avrei pagato meno o addirittura avrei viaggiato gratis, ho rifiutato, era disgustoso. Quando ne ho parlato con le altre ragazze mi hanno detto che era capitato lo stesso a tutte in Giordania. Una mia amica, fuggita anche lei dalla Siria, ha finito i soldi appena arrivata in Turchia. L’assistente del trafficante le ha detto che l’avrebbe fatta imbarcare se fosse andata a letto con lui. Lei si è negata e non è partita. Probabilmente è ancora in Turchia in attesa di trovare un altro modo per continuare il viaggio». Anche Nahla, siriana di appena 20 anni, racconta una storia simile: «Il trafficante mi infastidiva. Ha cercato un paio di volte di toccarmi. Mi stava lontano solo quando ero vicina a mio cugino. Capita spesso che le donne che non hanno soldi per pagare il viaggio vengano molestate da trafficanti che propongono di dormire insieme in cambio di uno sconto».
«Siamo partite in due, solo io e mia cugina, lei ha 15 anni. Per tutta la durata del viaggio sono riuscita a malapena a dormire, avevo il terrore di chiudere gli occhi. – a parlare è Reem, che si sente grande, ma anche lei ha appena vent’anni – Nei campi profughi ho assistito a scene di violenza, riuscivo a riposare solo quando eravamo a bordo del pullman, lì avevo la sensazione di essere un po’ più al sicuro. Nei campi è facilissimo essere toccate e nessuna denuncia quel che succede. Non si può. Si rischierebbe di creare problemi, di bloccare il viaggio». L’imperativo invece è quello di andare avanti, ad ogni costo.
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Alcune delle donne intervistate da Amnesty si concentrano sulla brutalità e la violenza con cui venivano trattate dagli agenti di polizia, specialmente quando il sovraffollamento dei centri di raccolta dei migranti faceva salire la tensione richiedendo l’intervento delle forze di sicurezza.
«La polizia ungherese ci ha trasferiti in un altro campo – ricorda Rania, 19 anni e incinta – il posto era persino peggiore del primo. Era pieno di gabbie, non passava un filo d’aria. Praticamente eravamo in cella. Siamo rimasti lì per due notti. Avevamo diritto a due pasti al giorno. Il secondo giorno la polizia ha picchiato una siriana di Aleppo, solo perché aveva pregato di lasciarla andare via. Sua sorella ha provato a difenderla, lei parla inglese. Le hanno detto che se non stava zitta avrebbero picchiato anche lei. La stessa cosa è successa a un’iraniana, che aveva chiesto un po’ di cibo in più per i suoi figli».
Non è diversa la storia di Maryan, 16 anni: «Eravamo in Grecia. Abbiamo cominciato a piangere e a urlare, così è arrivata la polizia che ha manganellato tutti quanti, anche i più piccoli, colpivano qualsiasi parte del corpo, anche la testa. Io sono stata colpita al braccio. Per il dolore e per la tensione ho avuto un capogiro, sono finita a terra, con le persone che mi cadevano sopra. Quando mi sono ripresa, non trovavo più mia madre. Ho cominciato a piangere fino a che non hanno chiamato il mio nome e sono riuscita a ritrovarla. Il braccio continuava a farmi male, allora ho mostrato a un agente di polizia il braccio dove ero stata colpita, lui si è semplicemente messo a ridere. Ho chiesto di un dottore, hanno risposto a me e a mia madre di andare via». Di continuare il viaggio attraverso montagne, mari, mani, pugni, calci, treni, pullman, violenze, campi rifugiati sovraffollati, molestie. Cercando di non perdere la rotta o se stesse prima di arrivare in Europa.
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