«È uno che viene dal settore privato, e nel settore privato i bilanci bisogna tenerli in ordine. capace…È uno capace di comandare e licenziare (che però si dice “fire”, che significa anche sparare). È un comandante in capo! Siete pronti per il comandante in capo che andrà a prendere a calci in culo l’ISIS? Uno che chiuderà i confini per proteggere i nostri posti di lavoro?». In sintesi l’intervento di Sarah Palin al comizio di Donald Trump in Iowa è questo. Ed è molto, per il miliardario newyorchese: l’endorsement dell’ex governatrice dell’Alaska, campionessa conservatrice dei joe six pack e delle hockey mums – il lavoratore che compra il pacco da sei lattine di birra al sabato e della mamma che accompagna i figli a fare sport – può essere importante.
Secondo, è una celebrity come lui, ma è donna e molto conservatrice, caratteristica che difetta a Trump, che sui temi etico-religiosi è debole: non a caso in Iowa dove l’elettorato del partito repubblicano è anche molto evangelico, è in vantaggio il senatore del Texas, Ted Cruz, che probabilmente vincerà lo Stato grazie all’organizzazione dei religiosi. Trump però può guadagnare, motivare il suo pubblico, fatto di persone poco avvezze alla politica e alla partecipazione alle primarie – la grande incognita è proprio: quanti di quelli a cui piace il miliardario andranno davvero ai seggi delle primarie?
Terzo, è la figura più popolare e importante del partito repubblicano ad aver scelto di appoggiare Donald: è un segnale, per quanto marginale, di una potenziale coalizione dentro il partito, decisa a farla finita con il business as usual. Palin è stata marginalizzata dalla cupola del partito, si è messa in imbarazzo mille volte, ma è rimasta nei cuori dei militanti del Tea Party, che già vedevano in Trump un potenziale campione. Il sostegno di Palin, in Iowa, dove contano le centinaia di voti raccolti e dove Sarah ha una rete fitta di contatti, è potenzialmente un grande aiuto. Non è detto che lo sia nazionalmente, ma l’Iowa pesa: è il primo Stato dove si vota e nel secondo, il New Hampshire, Trump è in netto vantaggio.
Ma che fina ha fatto Sarah Palin da quando fu scelta dall’establishment repubblicano per fare da vice a John McCain nella corsa per la Casa Bianca nel 2008? Per almeno due anni è rimasta la campionessa unica di un partito repubblicano distrutto da una schiacciante vittoria Obama. Lei, assieme a pochi altri, è quella che ha rappresentato la faccia della rivolta della parte marginalizzata del partito perché imbarazzante e impresentabile, ma al contempo corteggiata e fondamentale a vincere le elezioni. Palin è una delle facce del Tea Party anti Stato, anti tasse, anti Washington, che a giudicare dalla forza di Trump nei sondaggi, è oggi la base sociale del partito repubblicano: lavoratori bianchi e pensionati che votano contro i loro interessi.
Fino al 2012 ha seriamente pensato di correre per la Casa Bianca, ma una serie di scandali riemersi dai tempi di quando era governatore (spese eccessive, abuso di potere) e le uscite fuori luogo su una serie di temi e un po’ di gogna mediatica l’hanno fatta desistere. Negli anni ha condotto una serial Tv in cui si aggirava con la famiglia per le nevi dell’Alaska cacciando, nel quale mostrava quanto fosse tosta, ha scritto libri e fatto la ospite negli show Radio e Tv conservatori, firmato un contratto da un milione di dollari con l’all news conservatore FoxNews, venduto milioni di libri (Going Rogue, la sua autobiografia ha venduto tre milioni). E coltivato una rete. Le uscite sballate, come quella in cui per difendersi dalle accuse di non capire di politica estera disse: «Ma come? Io vedo la Russia dalla finestra di casa», non le sono costate. Oggi è una celebrity del mondo conservatore che sa parlare al popolo bianco e un po’ marginale d’America. Quello che sente che il Paese è in mano a una banda di gay, neri, messicani e studenti sinistrorsi di New York e San Francisco intenzionati a distruggere i valori fondanti dell’America: la religione, il fucile e il libero mercato senza Stato. Che quelli siano davvero i valori fondanti o meno è un altro paio di maniche: la crisi economica e dieci anni di propaganda repubblicana e conservatrice hanno creato un senso comune nella destra che fa immaginare un passato che non esiste.
Lo stesso passato a cui si riferisce Trump nel suo slogan: «Make America great again», torna a far grande l’America. Per questo lui e Palin vanno tanto bene assieme. E per il fatto che non hanno il problema della coerenza e della plausibilità delle loro dichiarazioni. Come ha dimostrato l’ascesa di Trump, c’è un pezzo di società americana (ma succede anche in Europa) che se ne infischia del buon senso. Vuole sentir dire certe cose, per quanto improbabili. Trump e Palin sono lì a dirle per loro.
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