Qualche giorno fa il governo britannico ha raggiunto un accordo con Google sulle tasse da pagare nel Regno Unito: 130 milioni di arretrati dal 2005 a oggi. Una tassa del 3% hanno attaccato i laburisti mentre alcune ricerche sui profitti di Google indicano che il prezzo giusto da pagare sarebbe di 200 milioni l’anno (e non 130 per dieci). E la commissaria alla concorrenza della Commissione europea, Margharete Vestager, ha annunciato un’inchiesta. Nel frattempo Google ha scritto al Financial Times per difendersi: noi rispettiamo la legge, non evadiamo le tasse.
A loro volta Francia e Italia hanno aperto inchieste formali per verificare se e come il gigante tecnologico abbia evaso o eluso le tasse nei due Paesi. Per l’Italia si tratta di circa 300 milioni – e un possibile gettito sopra i 200. Un’inchiesta simile riguarda Apple. Amazon, Starbucks sono a loro volta nei guai o hanno raggiunto accordi. Non potrebbe essere altrimenti: negli anni i giganti tecnologici hanno usato i buchi della regolamentazione europea e mondiale sulle tasse per pagare il meno possibile agli Stati dove generano profitti piazzando le loro sedi legali in luoghi che hanno una corporate tax, una tassa sui profitti dlele imprese, più bassa che altrove. In Europa questi luoghi sono Irlanda e Lussemburgo. Il mondo è pieno di paradisi fiscali nei caraibi dove proprio non si paga nulla. Le sedi dei giganti tecnologici sono anche la.
In effetti Google, Facebook (che ha chiuso un trimestre di profitti da record) e Apple (che invece porta un segno meno nella vendita di telefoni per la prima volta in 13 anni) non hanno frodato il fisco ma approfittato dell’assenza di regole e accordi non pagando le tasse dove generano profitti, paese per paese, ma dove hanno la loro sede legale. Ora, il sistema internazionale di tassazione è quello emerso dalla Lega delle Nazioni nel 1928 – ci ricorda il Financial Times – prevede che la maggior parte delle tase vengano pagate dove i prodotti vengono creati, costruiti, pensati. Bene, perché allora Google non paga molto nemmeno negli Stati Uniti? Perché studiando bene si riesce, appunto, a fare in modo di essere una compagnia delle Bermuda. Il sistema lo consente, le imprese lo usano.
La novità, oltre a un qualche dinamismo di governi nazionali senza un soldo che fino a ieri hanno accettato i comportamenti delle multinazionali senza dire una parola, è che i 31 Paesi Ocse hanno firmato un accordo che dovrebbe rendere più complicato evitare di pagare le tasse nel luogo dove si generano profitti. Se Facebook o Google vendono pubblicità in Italia o in Olanda, dovranno dichiarare i loro profitti e pagare le tasse nel luogo in cui vendono e non dove hanno la sede internazionale. I Paesi sono d’accordo nello scambiarsi informazioni relative alle dichiarazioni dei colossi. La pressione per Google&Co era cresciuta nel tempo, per anni le compagnie sono cresciute evitando il problea fisco o quasi. Ora il clima è cambiato e c’è l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema. Basteranno l’accordo Ocse e la crescente attenzione dei governi? Possibile, ma certo l’accordo con la Gran Bretagna, mostra anche come le grandi multinazionali siano capaci di ottenere dai governi condizioni vantaggiose comunque. La pressione e l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica su un tema importante in un mondo dove gli Stati faticano a trovare soldi per riparare i buchi nelle strade e finanziare le scuole, rimangono l’antidoto migliore.
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